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Posted by on sabato, Dicembre 8, 2018 in Politica |

Attila a Milano

Mi riferisco, ovviamente, all’Attila di Giuseppe Verdi, la prima della Scala del 7 dicembre di quest’anno, anche se Attila – il famoso sovrano degli Unni – a Milano c’è stato davvero. La conquistò nel 452, dopo avere travolto Aquileia, e soggiornò per qualche mese nell’attuale Palazzo Reale. Da musicofila dilettante, ho apprezzato sia la direzione d’orchestra di Riccardo Chailly che la regia di Davide Livermore, e ovviamente anche gli interpreti. La particolarità della regia di quest’anno, come saprete, è stata la trasposizione della vicenda dal Quinto secolo al Ventesimo, con richiamo alle scorrerie nazifasciste. Per contro, ho trovato abbastanza inutile (anche se non di cattivo gusto) il commento dietro le quinte, condotto da Milly Carlucci e Antonio Di Bella. Il momento più assurdo è stata l’intervista ad Amedeo Minghi (quello del Trottolino amoroso), assurto non si sa come a esperto di canto verdiano, come se nei dintorni non ci fossero critici musicali più autorevoli. Molto positiva l’operazione di recupero (iniziata con la Giovanna d’Arco nel 2015, e che proseguirà col Macbeth nel 2021) di opere verdiane meno conosciute. Una piacevole particolarità di Attila è che, una volta tanto, il personaggio femminile principale non muore, anzi, è assertivo e determinante nello scioglimento della vicenda. Non vi faccio spoiler, ma tenete presente che, secondo le regole del genere, quando nel prologo un “buono” promette di usare la spada per vendicarsi, nel terzo atto tale vendetta avviene puntualmente (un po’ come il famoso fucile di Cechov). Mi è spiaciuto, però, che i conduttori della serata non abbiano trovato il tempo di fare un po’ di divulgazione culturale intelligente. Ci si fa l’idea, infatti, che sia stato Verdi a inventare i personaggi, in particolare la valorosa Odabella. Non avrebbe guastato ricordare che l’opera (come tutte) aveva un librettista, in questo caso Temistocle Solera (1815-1878), anche se Verdi, insoddisfatto, fece apportare alcune modifiche a Francesco Maria Piave. Solera si offese a morte e non collaborò mai più con Verdi. Questo Solera era un personaggio mica male: figlio di un carbonaro detenuto allo Spielberg, riuscì comunque a studiare all’imperialregio collegio Maria Teresa di Vienna, e poi al Conservatorio di Milano. Per Verdi scrisse, oltre ad Attila, i libretti di Oberto Conte di San Bonifacio, Nabucco, I Lombardi alla prima crociata, Giovanna d’Arco. Poi, perseguitato dai creditori, fuggì a Madrid, dove fu dapprima librettista, poi consigliere della regina Isabella II e diplomatico. Nel 1859 tornò in Italia, per divenire tra l’altro delegato di polizia in Basilicata e poi questore. Poi si trasferì al Cairo per organizzare la polizia locale, e in Francia a fare il mercante d’arte, infine tornò a Milano, poco prima della morte. Attila è del 1846, ed è tratto dalla tragedia del 1809 Attila, König der Hunnen, del poeta romantico tedesco Zacharias Werner (1768 – 1823). Convertitosi al cattolicesimo nel 1811, Werner divenne sacerdote e predicatore a Vienna (dove fu ascoltato da folle di fedeli durante il famoso Congresso). Non so se si debba a Werner o a Solera l’idea che gli Unni (che erano una tribù di origini turche o mongole, praticanti della scapulomanzia – divinazione tramite le ossa bruciate di animali) fossero adoratori degli dèi vichinghi, visto che nell’opera si sprecano le invocazioni al grande Wodano.

Come spesso accade, politici in cerca di visibilità hanno scatenato polemiche pretestuose prima dell’opera. In particolare, il sindaco leghista di Cenate di Sotto (esiste veramente, è in provincia di Bergamo), Giosuè Berbenni, un mese prima della rappresentazione, si è lamentato in questi termini: “C’è una scena molto spinta dove viene rappresentato un bordello. In questa scena una donna prende la statua della Vergine Maria, madre di Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, e la scaraventa a terra. La scena è raccapricciante”. Non sappiamo a quale titolo il sindaco di Cenate abbia beneficiato di un’anteprima personale della Prima, né tantomeno a quale titolo parli a nome dei “credenti” come un ayatollah integralista, comunque di tale scena non c’è stata traccia. Si vede, nel corso del festino di Attila, allietato da donne discinte e travestiti stile cabaret di Weimar, una statua di una specie di vitello d’oro che viene buttata a terra nella confusione: l’effetto è quello di un peplum stile Sansone contro i Filistei.

Più intelligente la lettura politica proposta dalla regia, con l’analogia tra le invasioni barbariche e le dittature del Novecento, e magari i populismi contemporanei. L’Attila di Verdi e Solera – Piave, però, non è un Hitler e neanche un Trump: è un capo in crisi, turbato da presagi funesti e in balia delle circostanze. Un misto tra Macbeth e il De Niro di Un boss sotto stress. Semmai, è il generale romano Ezio, ambiguo e mellifluo quanto spaccone, a ricordare il nostro ministro Salvini. Sia per il suo sovranismo interessato (memorabile quando propone ad Attila Avrai tu l’universo, resti l’Italia a me), sia per il suo aspetto fisico e il suo look, come dimostra la foto qui sotto.

In conclusione, quella che per la mia famiglia è diventata una consuetudine (la diretta della Prima, da quest’anno su Rai1), si è rilevata ancora una volta molto piacevole e godibile (persino mio marito non si è addormentato, ed ha accettato di buon grado di perdersi i primi venti minuti di Juventus – Inter).

Grazie ai già citati Chailly e Livermore, e agli interpreti principali Ildar Abdrazakov (Attila), Saioa Hernandez (Odabella), Fabio Sartori (Foresto), George Petean (Ezio), senza dimenticare tutte le altre e gli altri.


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