Una sera d’estate, in attesa di scoprire una serie che avvinca, decido di riscoprire una storia classica: i sempreverdi Tre Moschettieri. Su una ben nota piattaforma trovo una versione abbastanza recente (2018) per scoprire solo all’ultimo momento che trattasi di produzione italiana. Decido di superare le mie ben note (e fondate) diffidenze verso il cinema nostrano e provo a dargli una chance: dopotutto, mi dico, per rovinare la perfetta macchina narrativa di Alexandre Dumas padre (con la collaborazione di Auguste Maquet e innumerevoli ghostwriters) ce ne vuole. Ebbene, ce n’è voluta, ma Moschettieri del Re (regia di Giovanni Veronesi, sceneggiatura di Veronesi stesso e di tal Nicola Baldoni) ha superato brillantemente la prova, trasformando un classico senza tempo in una marmellata senza senso. Il film (che porta il sottotitolo La penultima missione) sceglie di non adattare uno dei tre romanzi della saga dumassiana, ma di scrivere una storia originale, praticamente una fanfiction (e ci può stare). L’azione è situata “nel 1650 suppergiù”, ovvero venticinque anni dopo i Tre Moschettieri canonici, e inizia nel modo classico di un sequel: la regina Anna d’Austria (allora reggente in vece del minorenne Luigi XIV, in perenne conflitto con il Cardinale Mazarino) richiama i Tre (anzi Quattro) più o meno felicemente pensionati, per una pericolosa missione. D’Artagnan si è ritirato in campagna, dove alleva maiali e fa il porco con le mogli dei vicini. Stranamente, l’interprete Pierfrancesco Favino presta al personaggio un inopinato e caricaturale accento francese, un tantino incongruo in una storia ambientata in Francia. Athos (Rocco Papaleo) è diventato un vizioso castellano bisessuale dall’accento vagamente lucano. Aramis (Sergio Rubini), più canonicamente, si è fatto frate dall’accento sardo. Infine, Porthos è diventato un patetico rottame alcolista. Lo interpreta Valerio Mastandrea, che recentemente ha prestato la voce all’Armadillo, la coscienza cinica del fumettaro Zerocalcare, ovviamente in romanesco stretto. Anche per questo mio marito, reduce dal binge-watching di Strappare lungo i bordi e Questo mondo non mi renderà cattivo, da quel momento ha smesso di prendere il film sul serio, visto che ogni volta che sentiva parlare Porthos gli veniva di visualizzare un armadillo arancione antropomorfo. Fosse stato solo questo il problema! La realtà è che il film si è trascinato per un’ora e quarantacinque minuti in modo inconcludente, con gag volgari, recitazione improbabile, borbottii incomprensibili che fanno tanto “cinema italiano”. Poco credibile la missione affidata ai Moschettieri, che dovrebbero salvare gli Ugonotti (tra i quali inopinatamente viene a trovarsi il drammaturgo Molière) dalle mene di Mazarino (Alessandro Haber) il quale rotea gli occhi e ammazza disinvoltamente i suoi stessi subalterni come un cattivaccio da fumetto di serie C. Compare a un certo punto la femme fatale Milady (che però non è la stessa Milady dei Tre Moschettieri, visto che non conosce nessuno degli eroi e nessuno la conosce), senza dimenticare un servo muto che è una sorta di androide quasi invulnerabile. Verso la fine l’azione comincia a diventare ancora più incoerente: la dama di compagnia della regina e gli stessi Moschettieri riescono a coprire distanze di migliaia di chilometri a cavallo in poche ore; Milady si trasforma in un corvo nero e sparisce; il giovanissimo Re (non ancora) Sole viene rapito da ignoti e portato al confine con la Spagna; i poveri ugonotti da salvare vengono dimenticati e mai più menzionati. Di colpo, dissolvenza e (trovata che in tutte le scuole di sceneggiatura viene altamente sconsigliata) si scopre che la vicenda era stata tutta (tutta? anche le scene di sesso esplicito?) immaginata da un ragazzino dodicenne, che in attesa dei funerali di uno zio si era messo a leggere, per scacciare la noia e il dolore, un libro illustrato chiamato per l’appunto Moschettieri del Re. Il ragazzino scende in salotto e lì scopriamo che tutti i personaggi della storia avventurosa sono in realtà la trasfigurazione dei suoi parenti (Mazarino è il nonno carogna, il Servo Muto lo zio morto e così via). E qui la storia finisce, nella proverbiale coda di pesce.
Incredibilmente, il film (insignito nel 2019 del Premio Flaiano, probabilmente durante un momento di ubriachezza molesta della giuria) ha avuto un seguito, cosa che non si dovrebbe mai fare quando il primo film termina spiegando che Era Tutto Un Sogno. Nel 2020 è infatti uscito Tutti per 1 – 1 per tutti, opera recidiva dello stesso regista e degli stessi sceneggiatori. Stavolta il film comincia ai giorni nostri (2020) in piena epidemia di COVID: il ragazzino del primo film (che si chiamava Antonio e ora si chiama Uno) vive l’ultimo girono di scuola (tutti sfoggiano una stupenda chirurgica azzurra anziché le FFP2 che erano di rigore) e il maestro invita la classe a salutare la graziosa compagnuccia Ginevra (di cui tutti i maschietti, Uno compreso, sono segretamente innamorati) che parte per l’Inghilterra al seguito della madre. Dopo avere goffamente abbracciato Ginevra, Uno cominia a fantasticare e si ritrova protagonista della nuova avventura dei Moschettieri, chiamati dalla regina Anna a scortare Enrichetta d’Inghilterra in Olanda per dare in sposa la figlioletta Ginevra al principe d’Orange. Qui la licenza storica comincia a diventare eccessiva, visto che la vera Enrichetta nacque nel 1644, morì a 26 anni (qui il personaggio è quasi quarantenne) e non ebbe mai una figlia a nome Ginevra. Il film elimina un po’ di personaggi che erano centrali in quello precedente: non compaiono più Mazarino e Luigi XIV, ma soprattutto i Tre Moschettieri sono tornati Tre perché Aramis è morto (non vengono mai citate le circostanze ma si allude al fatto che siano vergognose): forse Sergio Rubini aveva litigato col produttore? Aramis comunque si è opportunamente reincarnato in un grazioso lupacchiotto (!) che fa da guida spirituale al giovane Uno. Con la partecipazione straordinaria di Cyrano de Bergerac e della Corte dei Miracoli, stranamente trasferita in campagna. Il film è venti minuti più lungo del precedente e se possibile ancora più sconclusionato, e secondo il benevolo giudizio di Wikipedia vorrebbe ricalcare la metanarrazione di La Storia Infinita, con l’alternarsi di sequenze reali e oniriche. La vicenda infatti si conclude con l’assalto dei Tre Moschettieri al furgoncino che porta Ginevra e la madre all’aeroporto: il piccolo Uno la rapisce per sé e vissero tutti felici e contenti. Si noti la visione tipicamente patriarcale delle donne nel film, dove esse sono tutte o vogliose più o meno represse (un picco del trash è la scena di sesso “a pecora” tra la regina Enrichetta e d’Artagnan, oltretutto inutile nell’economia narrativa), o damigelle in pericolo passive e contese tra Buoni e Cattivi come un baule di dobloni (Ginevra).
La conclusione è quanto mai diseducativa visto che – con l’alibi della Fantasia e dell’Immaginazione – si invitano i giovani maschi a non accettare la frustrazione sentimentale (ci può stare che la compagna di scuola che ti piaceva si trasferisca in un altro paese – ti fai dare l’indirizzo e vi scrivete, o vi messaggiate con Skype e simili, no?), ma a prendersi con la forza (e con l’aiuto di amici immaginari potenti e invincibili) ciò che il destino ti nega.
Direi che per quest’estate ho fatto il pieno di masochismo cinematografico. Da ora in poi, solo classici sperimentati.
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