Pages Menu
RssFacebook
Categories Menu

Posted by on sabato, Ottobre 3, 2020 in Fede, Pillole di Blog |

Ceci preziosi

Tutti conoscono le proprietà nutrizionali dei legumi (fagioli, lenticchie, piselli, carrube, cicerchie, ceci …), cibo economico dal prezioso apporto proteico e buona alternativa all’eccesso di carne nella nostra dieta. Moltissimi conoscono il detto di Gesù (Matteo 7: 6) che invita a “non gettare le perle ai porci”,  ovvero a non dare cose preziose a chi non è in grado di apprezzarle. C’è anche un ammonimento contro lo spreco.

Cosa c’entrano i porci coi legumi? In Umbria, fin da piccola, ho sentito spesso dire di nun gettà li cici a li purchi, ovvero “non gettare i ceci ai porci”.

I ceci, non le perle. E qui c’è qualcosa di strano. Perché nessun contadino con la testa sulle spalle darebbe da mangiare – anche se le avesse – perle ai propri maiali, pena rovinarne la salute e compromettere la possibilità di macellarli. Ma, al contrario, i ceci, prima dell’avvento dei mangimi industriali, erano ritenuti un ottimo cibo per i maiali. In un’altra regione agricola, la Lucania, ai porci si davano ceci, ghiande, favette, castagne, più un pastone fatto con la crusca e la sciacquatura dei piatti. Molti sostengono che “alimentati con questo ben di Dio, i maiali crescevano sani e robusti, e soprattutto la loro carne era ben più soda di quella dei maiali che si mangiano oggi”.

E allora il detto umbro ci riporta a una realtà dove, evidentemente, la povertà era tale che persino gli umili ceci erano sprecati se dati ai maiali, perché ne aveva bisogno la famiglia umana e non poteva permettersi di farne a meno. Un po’ come il Figliol Prodigo della famosa parabola (Luca 15: 16) che, ridotto in miseria, aspirava invano alle carrube con cui si nutrivano i maiali.

 

Read More

Posted by on domenica, Maggio 10, 2020 in Fede, Politica |

La preghiera mattutina

“La preghiera del mattino dell’uomo moderno è la lettura del giornale. Ci permette di situarci quotidianamente nel nostro mondo storico”. Così scriveva, più di due secoli fa, il filosofo Georg Wilhelm Friedrich Hegel. E il teologo riformato Karl Barth ebbe a dire che per fare una buona predica occorre avere in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale. Che direbbero oggi?

Sono abbastanza anziana per ricordarmi di quando esisteva più di un quotidfiano di sinistra. C’era Il Manifesto, Lotta Continua, il Quotidiano dei Lavoratori, Paese Sera, L’Ora; per i moderati l’Unità, più improbabili fogli come Servire il popolo o effimeri come Ottobre. Tendenzialmente, chi era di sinistra leggeva, con gradi diversi di fedeltà, il suo quotidiano di sinistra preferito. Per chi voleva allargare gli orizzonti, c’erano i giornali “borghesi” come il Corriere della Sera (in area piemontese La Stampa, detta affettuosamente La Busiarda). Poi venne La Repubblica e sostituì l’Unità nel cuore dei sinistri generici, dettando innumerevoli svolte di linea al PCI e successori, ma questa è un’altra storia. Analogamente, chi era di sinistra ascoltava programmi radio d’avanguardia (linea Arbore – Boncompagni) e poi le varie radio locali più o meno militanti. E chi era di sinistra guardava alla televisione programmi di cultura, inchieste, sceneggiati intelligenti, documentari. Varietà? Sì, se c’era un tocco di provocazione o trasgressione, un siparietto di Dario Fo, un qualche cantautore barbuto. I più appassionati si guardavano Berlinguer, Pajetta, Capanna, Castellina o altri a Tribuna Politica.

Oggi si comprano meno giornali, ma ci sono i social network. Guardiamo quindi la timeline di Facebook di un progressista medio. Chi sono i leader politici di cui appaiono faccioni e dichiarazioni più spesso? Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Quali sono i quotidiani di cui vengono riportati i titoloni, le prime pagine, citati gli editoriali? Libero, il Giornale, la Verità. Giornalisti o intellettuali più citati? Vittorio Feltri, Alessandro Meluzzi, Paolo Brosio, Mario Adinolfi, Maria Giovanna Maglie. Personaggi televisivi? Barbara d’Urso, Alessandro Giletti, Michelle Hunziker. Naturalmente, tutti costoro vengono citati, condivisi, ripresi per deplorarne, stroncarne, sfotterne le idee e le affermazioni, ma resta il fatto che sono loro, e non i nostri, a rimbalzare da un post all’altro. Post tipico: Ho guardato Non è l’Arena: un’ora e mezza di Salvini senza contraddittorio! E’ una vergogna! E’ uno scandalo! (Sì, ma non hai nient’altro da fare, nella vita?). Come se negli anni Settanta ci fossimo affollati alle edicole a comprare Il Secolo d’Italia o Il Borghese, e alle tribune politiche avessimo cercato Almirante o Covelli, naturalmente per dirci quanto erano odiosi e pericolosi.

E pensare che molte accreditate teorie sui social network denunciano il rischio della cosiddetta bolla informativa. In sintesi: ognuno di noi tende a vedere solo ciò che rafforza le proprie opinioni precostituite: i progressisti seguono siti e programmi progressisti, i reazionari siti e programnmi reazionari, e così via. Da noi questa bolla funziona in modo singolare e asimmetrico: quelli di sinistra si nutrono di post di destra, mentre ho i miei dubbi che accada il contrario. Non penso che i fascisti leggano (sia pure per stroncarne gli articoli) regolarmente le prime pagine del Manifesto, né che si vadano a cercare in televisione Report, Crozza o Zerocalcare (se c’è qualche destro che legge questo blog, mi smentisca pure). Se se la prendono con uomini (e soprattutto donne) di sinistra, è sempre per augurarsene l’omicidio e/o lo stupro, mai per criticarne le idee. Quindi, chi è di destra diffonde contenuti di destra, e chi è di sinistra … invece pure. Così sono solo i contenuti di destra a girare in Rete, e quindi a dettare l’agenda. E chi detta l’agenda vince, anche se perde le elezioni o cala nei sondaggi. Non è un caso se poi i politici si autoconvincono che “gli italiani” non vogliono lo ius soli o la regolarizzazione dei migranti). Loro saranno reazionari, ma noi siamo solo reattivi. Una delle pagine Facebook più visitate si chiama Leggere i post di Salvini and Friends per sentirsi migliori. Magra soddisfazione.

Insomma, mi sa che questa “preghiera mattutina dell’uomo moderno” è ridotta male. Assomiglia un po’ troppo alla preghiera del fariseo (cfr. Luca 18: 9-14): Signore, ti ringrazio perché non sono come gli altri che sono razzisti, analfabeti funzionali, fascisti, sessisti, comploittari, omofobi … Una preghiera del genere, come diceva Gesù, non edifica e non giustifica.

Read More

Posted by on sabato, Settembre 14, 2019 in Fede, Wurstel |

Ma guarda che mi tocca fare

A Napoli si fa facilmente indigestione, non solo di cibo, ma anche di arte. Al Museo Nazionale di Capodimonte, che si trova in un quartiere sopraelevato un tempo chiamato I Vergini, si può passare la giornata a nutrirsi di capolavori. E a forza di guardarli, ci si fanno strane domande.

Prendiamo ad esempio il quadro qui riprodotto. Si chiama Eterno tra cherubini e testa di Madonna, ed è la prima opera documentata di Raffaello Sanzio, allora diciassettenne (1500), realizzata in collaborazione con Evangelista da Pian di Meleto (1460-1529), assistente della bottega di suo padre Giovanni Santi.  Ma quel che c’è a Capodimonte è in realtà solo un frammento di un’opera più grande: la Pala Baronci, realizzata per la chiesa di Sant’Agostino a Città di Castello. Chiamata anche Pala del Beato Nicola da Tolentino, l’opera – che comprendeva anche scene di vita e miracoli del suddetto Beato – venne gravemente danneggiata da un terremoto nel 1789 e sezionata. Alcuni pezzi andarono smarriti, altri dipersi tra varie destinazioni: a Detroit ci sono gli imperdibili San Nicola da Tolentino resuscita due colombe e San Nicola da Tolentino soccorre un ragazzo che annega, a Brescia e al Louvre due angeli, a Pisa San Nicola da Tolentino e gli impiccati.

Così, a Napoli rimane questa parte del puzzle, dove il Padreterno e la Madonna tengono in mano due corone, mentre una terza si sporge dal nulla in basso a destra (doveva essere retta da Sant’Agostino). Il Creatore dell’Universo, la Madre del Salvatore e un illustre teologo ci si mettono in tre, quindi, per incoronare Nicola da Tolentino. Cosa difficile da visualizzare, a meno che l’illustre agostiniano (al secolo Nicola di Compagnone, 1245 – 1305) non fosse dotato di tre teste come Cerbero, o non le intendesse tenere in equilibrio una sopra l’altra (è un miracolo anche questo). Quando abbiamo visto il quadro, però, questi dettagli non li sapevamo, e siamo rimasti stupiti e affascinati dalle espressioni facciali del Padreterno, della Madonna e dei quattro Cherubini. A parte il cherubino più vicino a Maria, quello in basso a sinistra, che socchiude la bocca e sgrana gli occhi in segno di stupore, gli altri personaggi, se li guardate bene, ci dicono tutt’altro. Due cherubini sembrano letteralmente schifati, un terzo depresso. La Madonna guarda nel vuoto come a dire facciamo in fretta che ci ho di meglio da fare, e il Padreterno chiude gli occhi e storce la bocca, sembra stia pensando ma chi me l’ha fatto fare.

Mi sono chiesta, confrontandomi anche con mio marito: forse siamo noi postmoderni che non riusciamo più a decifrare il lunguaggio della pittura di secoli fa? Forse nella fisiognomica di allora, dove noi leggiamo noia e schifo, allora si leggeva serietà e compunzione? Come quei quadri di Santi e Sante in estasi che ora ci paiono sotto l’effetto di metanfetamine ma allora avevano sicuramente una connotazione mistica? Gli esperti d’arte attribuiscono a Raffaello il volto della Vergine, e quello dell’Eterno al più anziano – ma sicuramente meno raffinato – Evangelista, il che può spiegare qualcosa, ma non tutto. O – chissà – la noia che traspare dal volto del Padre è un messaggio volontario di Evangelista da Pian di Meleto, che ha trasmesso ai posteri il proprio stato d’animo. Forse i rapporti in bottega non erano poi così idilliaci e l’esperto assistente non gradiva di dovere affiancare in posizione subordinata – con la prospettiva di essere soppiantato – il talentuoso rampollo diciassettenne del padrone, e ce l’ha fatto capire ritraendosi in quel Padreterno arrabbiato per essere stato distratto dal suo lavoro quotidiano (magari stava creando un buco nero), per andare a incoronare un agostiniano patito della verginità e dei panini.

(Per capire quest’ultima allusione, andatevi a vedere su Wikipedia la biografia di Nicola da Tolentino)…

https://it.wikipedia.org/wiki/Nicola_da_Tolentino

 

Read More

Posted by on sabato, Agosto 31, 2019 in Fede, Mentre Vivo |

Purgatorio napoletano

Prima di andare in vacanza, vi avevo intrattenuto con un post sul Limbo (La danza infernale, 14 luglio). Rimaniamo in qualche modo in tema parlando del Purgatorio. Con mio marito ho trascorso otto giorni a Napoli, in un piccolo e accogliente B&B, vicinissimo alla Via dei Tribunali. Detta anche Decumano Maggiore, è una delle tre strade del centro storico (le altre due sono Spaccanapoli e l’Anticaglia), che riprendono il tracciato dell’antica Neapolis greco -romana. Strada acciottolata, tutta salite e discese, frequentatissima da turisti e indigeni a tutte le ore. Una dura prova per piedi e ginocchia, ma una densità incredibile di chiese, palazzi, punti di riferimento storici. Vicinissimo a noi, giusto davanti al bar dove facevamo colazione, c’è la Chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, nota al popolo come ‘a chiesa de’e cape ‘e morte. Venne commissionata nel 1616 dalla congregazione laica Opera Pia Purgatorio ad Arco all’architetto Giovan Cola di Franco, e consacrata nel 1638. La struttura fu concepita su due livelli, una chiesa superiore che rimandasse alla dimensione terrena e un Ipogeo, area cimiteriale, che rappresentasse concretamente il Purgatorio. Tutto odora di Controriforma: infatti la cura delle anime del Purgatorio era uno dei punti principali della spiritualità post -tridentina, e tutto l’apparato decorativo venne ideato per ricordare, a passanti e fedeli, che le anime attendevano una preghiera in suffragio per potersi liberare dal fuoco del Purgatorio e ascendere al Paradiso. La facciata, la decorazione della chiesa e della Sagrestia, gli arredi liturgici, ogni cosa rimanda al tema del Purgatorio. L’accesso alla chiesa è gratuito, mentre si pagano 6 euro (come per il Maschio Angioino, tanto per fare un confronto) per vedere il Museo dell’Opera, l’Oratorio dell’Immacolata, e soprattutto l’Ipogeo.  A quest’ultimo – una vera e propria chiesa sotterranea – si accede attraverso un’apertura nel pavimento della chiesa superiore, scendendo per alti gradini. Al centro del pavimento si apre un’ampia tomba anonima circondata da catene nere e illuminata fiocamente da qualche lampadina. Lungo le pareti laterali, scarabattoli, nicchie, piccoli altarini, documentano il culto che spontaneamente nacque, fin dal seicento, nella chiesa inferiore, mentre sulla parete di fondo l’antico altare seicentesco mostra un’austera decorazione con grandi croci nere. Un’apertura laterale introduce attraverso un corridoio, all’ambiente dedicato alla Terra santa, dove, tra gli altri teschi, si trova quello di Lucia, l’anima tanto amata alla quale la tradizione popolare ha dedicato un complesso altarino. Secondo la leggenda, questa Lucia, il cui teschio è adornato da un velo da sposa e da una coroncina, era una principessa, morta giovanissima poco dopo le nozze. La tradizione popolare ha eletto quest’anima a protettrice delle spose e mediatrice per preghiere e invocazioni.

Da qui si vede come il culto delle Anime del Purgatorio (le anime pezzentelle) sia andato oltre le stesse intenzioni della chiesa controriformistica. Non si prega solo per le anime del Purgatorio, ma si pregano direttamente loro, affinché, in una catena di mediazioni, intercedano presso i Santi, i quali intercedono presso la Madonna, la quale intercede presso il Cristo, che si rivolge al Padre. Una serie di passaggi gerarchici degna di un ministero. Il culto popolare prevedeva la scelta di un teschio a cui seguiva la sua adorazione. Le anime purganti apparivano in sogno ai fedeli, e chiedevano preghiere e suffragi per accelerare la transizione al Paradiso, offrendo in cambio presagi e numeri da giocare al Lotto. Troppo persino per la chiesa cattolica ufficiale, che negli ultimi decenni ha cercato di scoraggiare queste forme di culto definendole arbitarie e superstiziose. Ufficialmente, il culto delle “anime pezzentelle” non è più attivo, tranne – secondo alcuni – presso la Basilica di san Pietro ad Aram, e il Cimitero delle Fontanelle (che non abbiamo visitato).

Abbiamo rinunciato di comune accordo alla visita dell’Ipogeo, in quanto non solo urtava la nostra sensibilità riformata, ma prometteva di essere molto claustrofobico, e per di più a pagamento. All’esterno della chiesa, sul marciapiede, ci sono alcune colonnine sormontate ciascuna da un simpatico teschietto dorato, che tutti i passanti accarezzano percorrendo la via. Devo ammettere che l’abbiamo fatto anche noi. Del resto, veniamo da una città moderna e industriale, dove tutti si premurano di calpestare le Palle del Toro nell’Ottagono della Galleria. A Napoli c’è la Galleria Umberto, quasi uguale alla nostra Vittorio Emanuele e anch’essa dotata di affreschi coi segni zodiacali per terra. Qui, però, le Palle del Toro non le calpesta nessuno: un’amica napoletana si è anzi stupita che a Milano lo si faccia. Animali astrologici o teschi penitenziali, ognuno ha le sue superstizioni.

Read More

Posted by on domenica, Luglio 14, 2019 in Fede |

La danza infernale

Una volta insegnavo anche ai ragazzi e alle ragazze del triennio. Me ne sono tirata fuori quando i carichi burocratici sono diventati eccessivi – fino a culminare nella nefanda Alternanza Scuola Lavoro – e ora seguo i più piccolini del biennio. In terza si comincia la Divina Commedia: e, quando al Canto Quarto si parlava del Limbo, gli studenti andavano in crisi. La classica crisi che coglie chiunque ci pensa: perché un Dio giusto dovrebbe schiaffare all’Inferno per l’eternità – seppure in una zona senza diavolacci cornuti e stagni di fuoco – bimbetti morti prematuramente o pacifici poeti e filosofi dell’antichità, colpevoli solo di non avere mai sentito parlare di Gesù Cristo? La cosa strana è che, prima di incontrare il testo dantesco, questi ragazzi – pur in grande maggioranza battezzati, comunicati e cresimati in chiesa cattolica – non avessero mai sentito parlare del Limbo, neanche per sbaglio. Ricordo invece che quando ero piccola io il concetto era noto e presente a tutti. A parte atei e mangiapreti patentati, tutti si affrettavano a battezzare gli infanti, nel terrore che morissero e finissero nel Limbo: succedeva a Terni come a Milano. Che si sia smesso di credere in un concetto teologico così dubbio e punitivo, non mi disturba: mi disturba più che sia avvenuto più per ignoranza che per convinzione. Così, quando papa Ratzinger nel 2007 ha dichiarato che il tradizionale concetto di limbo riflette una visione eccessivamente restrittiva della salvezza, non ha fatto altro che prendere atto dello stato delle cose, abrogando di fatto una credenza che no era mai stata elevata allo status di dogma.

Durante le lezioni, per vivacizzarle, mi capitava di intonare l’ossessiva musichetta del Limbo Rock (il pezzo portato al successo da Chubby Checkers nel 1962) – Tattatattatatta ta – Tattatattatattata ta -Tattatattatatta ta – All around the limbo world … nella speranza che qualcuno se la ricordasse, ma anche lì, reazione nulla. Evidentemente nell’incessante ciclo dei revival e delle riscoperte, non è ancora arrivato il turno della limbo dance.

Chiariamo l’etimologia: si tratta di una pura coincidenza che il nome del primo cerchio infernale e quello della danza siano uguali. Nel primo significato, limbo viene dal latino lembus, lembo o orlo (originariamente, si diceva limbo dell’Inferno, poi si è passati alla maiuscola). Il nome della danza viene invece dall’inglese caraibico: limbo (o limba) sarebbe deformazione dell’inglese limber, aggettivo che significa agile, flessibile, snodabile. Il limbo era una danza degli schiavi provenienti dall’Africa, e secondo alcuni rappresentava il ciclo della vita.

Accessorio indispensabile per la danza è la limbo bar, sbarra orizzontale piazzata sopra due sbarre verticali, un po’ come nel salto in alto. I partecipanti devono danzare passandoci sotto, senza toccarla e senza mettere le mani a terra. Tradizionalmente, si cominciava mettendo la sbarra il più in basso possibile, per alzarla poi gradualmente, a significare l’emergere dalla morte alla vita (o dalla schiavitù alla libertà). Quando la danza è diventata popolare – specialmente a Trinidad – si è rovesciata la sequenza: si parte con la sbarra ragionevolmente in alto e la si abbassa a ogni giro: chi la tocca o tocca terra con le mani è eliminato, così resta un solo vincitore. Tale dinamica è evocata nella suddetta canzone (in cui la parola limbo è ripetuta almeno venti volte, anche come aggettivo: limbo rock, limbo girl, limbo world), dove a un certo punto si dice:

Don’t move that limbo bar
You’ll be a limbo star
How low can you go
(Non muovere quella sbarra del limbo / Sarai una stella del limbo / Fino a quanto in basso puoi scendere).

Il record, secondo Wikipedia, è detenuto da Shemika Campbell (originaria di Trinidad ma risiedente a Buffalo) che nel 2010, all’età di 26 anni, danzò sotto la sbarra a posta a 21,5 centimetri.

Un terzo significato di Limbo l’ho scoperto stamattina, preparando il post. Nel 2010 lo sviluppatore danese Playdead ha realizzato un videogioco per Xbox chiamato appunto Limbo. In esso, un ragazzo si avventura in ambienti pericolosi e pieni di trappole mortali alla ricerca della sorella maggiore. Secondo lo stile prova o muori, ogni errore si traduce nella “morte” del personaggio, che, anziché in un semplice GAME OVER sullo schermo, si manifesta in animazioni raccapriccianti.

Nessuno dei tre significati del Limbo (oltretomba, danza, videogioco) sembra evocare nulla per i discenti odierni: la parola affoga proprio – è il caso di dirlo – in un limbo di indefinitezza.

 

Read More

Posted by on sabato, Gennaio 12, 2019 in Fede, Politica |

Quarantanove

Quarantove sono i Racconti dell’omonima raccolta di Ernest Hemingway, ma qui non c’entrano. Quarantanove sono i milioni della truffa dei rimborsi elettorali, che la Lega restituirà in comode rate da centomila euro a bimestre (ci vorranno un’ottantina d’anni, quindi probabilmente nel frattempo la civiltà umana sarà collassata causa riscaldamento globale). Quarantanove, infine, sono i migranti, salvati dalle ONG tedesche Sea Watch e Sea Eye, bloccati sulle navi per settimane senza poter sbarcare perché nessuno in Europa (né i cattivi sovranisti né i “buoni” europeisti) voleva farsi carico della loro accoglienza. Come sappiamo, da pochi giorni la situazione si è sbloccata: i quarantanove sono sbarcati a Malta, in attesa che Francia, Germania, Portogallo, Lussemburgo, Olanda, Romania, Irlanda, Slovenia e Italia mantengano l’impegno di accoglierli.

Da noi abbiamo assistito a un sofisticato gioco delle parti triangolare tra il Poliziotto Cattivo Salvini (“Accoglienza Zero!”), il Poliziotto Buono Di Maio (“Solo donne e bambini!”) e il Re Travicello Conte (“Vengo a prenderli io!”), che si è risolto grazie alla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI) e alla chiesa valdese, che accoglieranno una quindicina di persone (per lo più nuclei familiari) nel centro di Scicli (provincia di Ragusa). Come ha detto il pastore battista Luca Negro, presidente della FCEI, “Non ci interessa soccorrere il governo, ma solo salvare vite umane” (intervista al Manifesto dell’11 gennaio). Nello stesso senso va la partnership della FCEI con l’ONG Open Arms, e il Manifesto per l’accoglienza, scritto quest’estate e affisso in tutte le chiese valdesi, metodiste e battiste in Italia. Un manifesto che riporta affermazioni chiare quali:

Respingiamo la falsa contrapposizione tra accoglienza degli immigrati e bisogni degli italiani. Denunciamo la campagna politica contro gli immigrati e i richiedenti asilo. Ci opponiamo alle politiche italiane ed europee di chiusura delle frontiere, di respingimento e di riduzione delle garanzie di protezione internazionale dei richiedenti asilo. Crediamo nella necessità dell’integrazione degli immigrati in una società accogliente, capace di promuovere l’incontro e lo scambio interculturale nel quadro dei princìpi della Costituzione.

Come più volte detto in questi giorni, l’accoglienza dei profughi sarà “senza oneri per lo Stato”, in quanto finanziata coi fondi dell’Otto per mille, che da sempre valdesi e metodisti utilizzano non per le proprie attività di culto, ma per progetti di sviluppo, assistenza, accoglienza, cultura, in Italia come all’estero.

Per una volta, posso assaporare la fierezza di essere parte di queste piccole chiese che, con tutti i loro difetti e le loro manchevolezze, cercano di fare qualcosa di concreto per dare senso alla testimonianza evangelica, non limitandosi alle prediche ma sporcandosi le mani con progetti e azioni. Per qualche giorno abbiamo sfondato la barriera dell’opacità, comparendo nelle prime pagine dei quotidiani e addirittura in televisione. Qualche amico di Facebook mi ha manifestato la disponibilità a darci il suo Otto per mille l’anno prossimo. Qualcuno, chissà, magari una domenica mattina troverà la curiosità di mettere piede in un nostro tempio. Che il Signore ci aiuti a essere Suoi testimoni utili e credibili.

https://www.fcei.it/2018/08/13/manifesto-per-laccoglienza-questa-e-una-chiesa-che-accoglie/

(qui sopra linkato il Manifesto per l’Accoglienza. Il disegno è di Francesco Piobbichi, operatore di Mediterranean Hope, il progetto FCEI per l’accoglienza ai migranti).

 

Read More

Fatal error: Class 'AV\Telemetry\Error_Handler' not found in /membri/.dummy/apps/wordpress/wp-content/plugins/altervista/early.php on line 188