Dopo la forzata interruzione del 2020 per ben note cause pandemiche, ieri è tornata la tradizionale prima della Scala a Milano. Una tradizione anche per me: in quelle due -tre ore che passo davanti alla diretta televisiva sono irreperibile per chiunque. Quest’anno, chiudendo un’ideale trilogia di opere giovanili cominciata nel 2015 con Giovanna d’Arco e proseguita nel 2018 con Attila, toccava al Macbeth di Giuseppe Verdi. Wikipedia ci informa che si tratta della decima opera di Verdi, con libretto di Francesco Maria Piave (rivisto da Andrea Maffei). Queste precisazioni sono pignole ma sempre utili, visto che i commentatori Rai tendono ad attribuire a Verdi o chi per lui non solo la musica, ma anche i versi (come quelli che pensano che Lucio Battisti – e non Mogol – abbia scritto il testo di Emozioni).
(Purtroppo, la bella serata è stata rovinata dalle apparizioni in video di Bruno Vespa, ma non si può avere tutto).
L’opera fu rappresentata per la prima volta nel 1847 a Firenze e inizialmente non ebbe un grande successo, cadendo nel dimenticatoio per un secolo, finché non fu riproposta nel 1952 con Maria Callas nei panni della protagonista. L’estrema aderenza al testo originale di Shakespeare fa sì che l’opera si distacchi dal classico schema del melodramma, in cui l’eroina è contesa tra il Tenore buono e il Baritono o Basso cattivo, oppure è una fragile fanciulla minata da un male incurabile o altre sfighe assortite. Come sappiamo, Lady Macbeth è l’eroina, ma anche la Cattiva, vero e proprio motore degli eventi, instancabile incitarice dell’ignavo marito.
Noto tra parentesi che il Macbeth, inteso come opera teatrale, è considerato dagli operatori del settore foriero di sventure (per non dire portajella). Nel mondo teatrale anglosassone, quando un attore pronuncia il nome del dramma in teatro, deve uscire dal teatro, ruotare su se stesso tre volte, sputare da sopra la spalla sinistra e recitare una battuta di un altro dramma shakespeariano, quindi bussare alle porte del teatro e attendere di essere invitato a rientrare. Secondo la leggenda più diffusa, per scrivere la canzone delle tre streghe presente nel dramma Shakespeare avrebbe copiato la formula di un sortilegio da delle vere streghe, le quali avrebbero perciò maledetto il dramma per vendicarsi. Secondo un’altra versione della storia, nella prima messa in scena del dramma, sarebbero state utilizzate delle vere streghe per impersonare le tre streghe e queste avrebbero recitato sul palco delle vere formule magiche, per questo motivo, da allora l’opera sarebbe maledetta. Come mi ricorda sempre mia figlia, tra teatranti di dice sempre e solo The Scottish Play, se no si fa la figura di chi bestemmia in chiesa o parla di corda in casa dell’impiccato. Tale pessima nomea non è condivisa dal Macbeth lirico.
Comunque, il Macbeth è da sempre una delle mie opere preferite. Ho una vecchia videocassetta logorata dal ripetuto uso e ne conosco alcune arie a memoria. Specialmente apprezzo, e canticchio spesso, la cabaletta Or tutti sorgete, ministri infernali (Atto primo, scena settima). Qui Lady Macbeth evoca le potenze del Male, perché diano forza al suo proposito di fare uccidere il re in carica Duncano, in modo da elevare al trono il marito (per esigenze di libretto, oltre a Duncàno abbiamo anche Macbétto e Macdùffo). Il concetto è, banalmente, che gli spiriti maligni incitano la gente a compiere opere malvage. Ma ammetterete che è tutta un’altra cosa intonare – magari al risveglio o sotto la doccia – Or tutti sorgete, ministri infernali / che al sangue incorate, spingete i mortali.
L’uso del termine ministri rende utilizzabile la cabaletta anche per inveire contro i dicasteri di turno e i loro abitatori, assai più di un banale Piove governo ladro. E il desueto verbo incorare (che, attraverso il caro vecchio dittongo mobile, viene da cuore) ha assonanze deretaniche mica male. Troppo facile, in specie alla vigilia di scioperi generali, cantare Ministri infernali che a sangue inc**ate i mortali.
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