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Posted by on lunedì, Maggio 1, 2023 in Racconti |

Schopenhauer e il prestito

La funzionaria Marilisa Ventre di Banca Accordo guardò soddisfatta la lista dei papabili al prestito, accingendosi a digitare il primo nome: Tiziana C.

Profilo perfetto: professoressa alle superiori, fresca di pensione, presumibilmente senza liquidazione perché lo Stato i suoi dipendenti li paga a babbo morto.”Buongiorno, sono Marilisa Ventre della sua filiale di Banca Accordo di via Forlimpopoli 32. Parlo con la signora Tiziana C.?”

Esitazione dall’altro capo del filo. D’altra parte chi ha ancora il telefono fisso è diffidente di default.

“Sì, sono io”  – rispose l’altra.

Marilisa sogghignò sferrando l’attacco.”Vedo che ha un prestito di cessione del quinto dello stipendio che scade nel 2025. Noi le proponiamo una proroga a tasso agevolato fino al 2028. È interessata?”

Dall’altra parte un profondo sospiro.

“Ho acceso quel prestito per finanziare gli studi di mia figlia”

“Appunto -replicò Marilisa-  ora che è in pensione è tempo di godere di altre cose. Crociere, abiti firmati, ristoranti…”

A Tiziana venne da ridere. L’idea della crociera la faceva pensare al film Titanic e all’angoscia conseguente, nel caso infausto si fosse trovata a bordo di una bagnarola.

Abiti firmati? Tiziana era reduce da un decluttering selvaggio dell’armadio: ne aveva salvato solo le cose più belle e più comode. Alcune pure firmate, ma prese rigorosamente alla Boutique en Plein Air, nonché mercato del giovedì.

Il ristorante era poi un lusso scomodo: molto meglio la gastronomia del Conad i cui prodotti potevano essere consumati da lei e suo marito comodamente spaparanzati a casa.

Marilisa tornò all’attacco:

“Pensi a quante belle cose si può comprare con il prestito” – affondò.

Tiziana non fece una piega e rispose:.

“Ma Lei lo sa che più oggetti si possiedono e più si è infelici? Perché poi la casa si riempie e dobbiamo perdere tempo ed energie a togliere la polvere, mettere a posto. Inoltre parecchi oggetti non servono allo scopo, ne basta uno che si utilizza in tutte le occasioni. E si sta meglio.”

Marilisa era annichilita:

“Ma…ma può fare tante cose con il denaro, levarsi tanti sfizi, che so un bell’albergo di lusso per esempio…”

Tiziana non mollò:

“Lei conosce Schopenhauer?”

Marilisa si sentì persa. Chi era costui? Un neomilionario citato da Forbes oppure un vip tedesco di recente fama? Queste cose al corso non gliele avevano dette.

Marilisa tacque e lasciò parlare Tiziana.

“Schopenhauer diceva che la vita è dolore perché oscilla tra il desiderio e la noia. Più si desidera e più si soffre. Chi desidera tanto soffre tanto. Mi vuole fare soffrire, dottoressa Ventre? No, mi tengo le cose che ho e sto contenta”.

Marilisa abbozzò:

“Come vuole Lei signora. Grazie di avermi dedicato il suo tempo”.

“Grazie a Lei. Buon lavoro e buona giornata”.

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Posted by on domenica, Aprile 19, 2020 in Racconti |

Lettera a un’amica

Cara Lia, stamattina mi sono svegliata alle sei e c’era una luna perfetta da boom economico e da anni prosperi, inadatta a questa quarantena che stiamo vedendo. Eppure essa occhieggiava in un cielo limpido, in un’aria pulita che non ricordavo più, semmai una volta qui a Milano ci fosse stata. La luna è una condizione dello spirito quando appare all’alba, ti fa capire che i contrasti nella vita esistono e che questo è il momento di guardarli in faccia, perché tanto non possiamo fare altro. Ti puoi sedere e puoi ricordare quella che eri e che hai tradito perché così è stato più comodo e più semplice. Puoi guardare negli occhi tuo marito e dirgli che tanti anni fa, durante una festa inutile, poteva fare a meno di fare l’occhiolino a quella conoscenza comune. Che ci sei stata male per quella cosa fatta più per cortesia che per altro, che ti ha fatto sentire piccola piccola. Puoi alzare il telefono e dire a quella persona del tuo passato che ogni tanto si fa viva e che favoleggia dei tempi andati che non siamo come i giapponesi e che l’arte del kintsugi la lasci fare a loro. Certe cose non si aggiusteranno più e è ora di voltare pagina e di guardare avanti. È ora però anche di ripescare quelle vecchie fotografie in un album e di piangere chi non c’è più perché i morti ogni tanto hanno bisogno delle nostre lacrime e del nostro respiro. Poi quando vedi tuo figlio in videochiamata digli che gli vuoi bene e che ci sei sempre ma che ormai è adulto ed è ora che le cose se le sbrighi da solo. È ora di tornare a ridere per le schiocchezze, un riso di pancia che ti scarica e ti fa bene al cuore. Io ci sono sempre per le nostre chiacchierate. E guarda la luna anche tu, Lia, una luna così non ci ricapita più.
Tua Tiziana
 
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Posted by on domenica, Marzo 17, 2019 in Racconti |

Stagioni – Autunno

Quarto e ultimo racconto della serie dedicata alle stagioni da Carla Manci, dello storico gruppo di scrittura La Pluma. I precedenti sono stati pubblicati il 17 febbraio (Inverno), il 24 febbraio (Primavera) e il 3 marzo (Estate). Buona lettura!

Autunno

Arriverò dal mare su una macchina volante come un pirata del tempo, guarda si sta alzando il vento. No, non conosco la direzione, sono uno strano viaggiatore posso solo risplendere per farti luce evitando di prendere fuoco. Tu contienimi, rimani acqua intorno a me, con il suo scendere e salire mi aiuterai a respirare. Così quando dovrò correre a perdifiato avrò pieni i polmoni e ricolmo il cuore di qualcosa che fino ad allora non avrò mai chiamato ma era il futuro, ed era magnifico.

Dopo che sarai arrivata saprai restare? Saprai guardare il vento tra i capelli senza volerlo toccare?  Rimarrai a debita distanza accettando che non bisogna fondere due luci per farne una. Ho sonno, sono stanca, non chiedere parole che non ho voglia di dire. Quante cose ancora da capire perché capire è la colla che ci tiene vicine. Ben venga un mare indifferente davanti agli eccessi del cuore, ben venga un mare che ci bagna senza restare che un attimo. Vederlo tornare dentro sé, restituirci altro. Il vento si posa nel sole del mattino, torna la calma.

Nel frattempo, il tempo del viaggio, ti manderò cartoline dai paesaggi della mia anima non avendo altro modo di portarti con me. Quantomeno, saprai sempre dove sono. E in qualunque abisso mi trovi, a qualsiasi rimorso o rimpianto appeso, mentre scalo le vette del destino basterà un telegramma per informarmi del tuo arrivo. Io sarò li.

Sarai l’aviatore che sorvola le guglie, sarai sotto nuvole candide. Degli abissi che sfiori saprai dare precisa descrizione e sarà fatta con parole insolite, smuoverà l’immagine nel registro della mente,  sveglierà la fantasia di luoghi mai visti ma di cui per mistero conosciamo tutto. Se alzo gli occhi al cielo o li abbasso sulle mie dita non vedo rimorsi o rimpianti, non più. Forse prima o poi arrivo.

Se non verrai, se non verrai non mi fermerò a contare i vagoni, le nuvole, le onde, viaggerò lo stesso. Conosco le stelle e i cicli delle maree. Se non entrassi, se non entrassi non riterrò perdute le chiavi che ho lasciato sotto lo zerbino, spero non le trovi un ladro o un assassino. Ma se verrai, se tu verrai troverai ogni cosa dove tu sai ed io non dovrei più partire perché sarebbe come tornare a casa.

Che peso ha la mia volontà? Il nostro è un vagare di onde che vanno ognuna nella propria direzione ma tu prova a stringermi lo stesso anche se mi difendono sbavature di ghiaccio, anche se sembrerà uno scontro il nostro più che un incontro. C’è strada davanti a me, questo è l’importante. Le tue chiavi le ho qui tra le mie dita, le userò quando il vento è propizio altrimenti non riesco a volare fino a te. La mia timidezza sfiora tutto ciò di cui conosco il posto. Non hai toccato niente, lo so. Perché così ti potrò ritrovare in ogni cosa che abbiamo guardato assieme. Vieni con me quando dovrò ripartire, fammi compagnia nelle mattine nebbiose. Così saremo sempre a casa.

Il vento? Sentissi come soffia in questo momento, impietoso e avido come un inquisitore, mi sta spogliando come questi pochi alberi di tutte le inutili parole che riesco sempre a dire. Io sto qui inerme, sotto i suoi colpi feroci, vuole che ammetta che non sono un eroe che non c’è niente di divino in me solo carne e vertigine.

Ti scuote il vento, ti percuote come un amante tradito vuole la verità e insieme non la vuole sentire. Apri il recinto, lascia fuggire il bestiame, che ci resti dentro la terra smossa, che ci resti il letame. Sui capelli ti piove un’acqua acida, un’acqua fredda e con il freddo senti di nuovo la differenza. La pelle freme. Ha bisogno di dei e d’eroi. Della somiglianza si nutre e si fa grande nel suo piccolo. E nel suo piccolo al pari diventa feroce poi… poi fugge via.

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Posted by on domenica, Marzo 3, 2019 in Racconti |

Stagioni – Estate

Continuiamo a ospitare nel blog i contributi delle amiche dello storico gruppo di scrittura La Pluma. Carla Manci ci propone il terzo racconto della sua serie dedicata alle stagioni (il primo, Inverno, pubblicato il 17 febbraio; il secondo, Primavera, il 24 febbraio). Buona lettura!

Estate

Sandali lasciati al sole, mezzo insabbiati, corrosi dal sale, senza più una definizione di colore. O luce o ombra. O sonno o sogno. Nelle mezze misure non ci entri. Tra le dita hai il piombo del cuore. L’hai levigato per farlo splendente, che non si dica che in qualche modo anche il buio non brilli…

Certe notti abbagliano, soprattutto d’estate fra il caldo, il sudore e un pensiero che non muore. Come faccio a perdonare se ho tradito me stessa, le mie convinzioni, le certezze, la risoluzione piegata da tanta fragilità, da un sottile stato di necessità. Le mezze misure mi spezzano a metà, come i compromessi. Ma ora non so più cosa è giusto o sbagliato, chi ha commesso il peggiore reato, l’altrui istinto o il mio cuore spezzato dall’aver perso me stessa.

Gli occhi, li socchiudo per vedere meglio, per sopportare la luce. Mi sono fatta il processo, ero giudice e giuria, non mi sono difesa perché costava troppo un avvocato che potesse sposare la mia causa. Avevo torto, avevo ragione. Erano dettagli che non avrebbero cambiato il corso della storia. La condanna è stata guardare in faccia la realtà per una settimana intera senza pubblicità, senza televendite, senza interruzioni. Mi addormentai per noia…

Per questo poi gli occhi me li hanno fatti tenere bene aperti per completare a dovere la condanna.

A me bastavano i sussurri del mio cuore perché è li che sono scritti i codici dell’onore ma questo processo si basa su ragioni oggettive, fatti che in realtà neanche conosco, storie per cui mi è proibito immaginare qualunque finale, pena altra e ancora realtà. Non posso neanche appellarmi alla clemenza della corte perché ho perso la bellezza, il coraggio, la compassione… ma signor Giudice quella era la mia vita, l’unica che al momento avevo a disposizione.

Resto a guardare il mio paese fatto di vene, di palpiti, di starnuti, di cose da niente, di cose di vita, di cuore, di fegato, sentimento e coraggio… Restare a guardarlo mentre un evento qualunque lo scuote, lo minaccia, lo brucia, lo riduce in cenere. Ma anche da lì ripianto quei codici d’onore che non invecchiano mai, lo faccio per automatismo e un po’ per scelta, per abitudine e convinzione. Forse il finale lo ricordo, lo riconosco, devo averlo già visto su qualche giornale.

Ma il giornale ahimè, è finito in cenere come il paese così riarso che alla mia memoria appariva un impero. Era solo un crocevia con un accampamento di poche persone che ho provato a conoscere, costruire e demolire perché semplicemente volevano andare per altre strade, che importa che io le avessi messe sul mio cammino fino a perdere l’orientamento, dimenticare la destinazione. Dove volevo andare, era scritto da qualche parte, avevo magnifiche mappe ma l’incendio la ha bruciate
e in fondo ho viaggiato, ho corso così forte che ora mi devo fermare. Signor Giudice lo vuoi proprio sapere, è stata una gran vita la mia ultima vita. Passerò l’estate a fantasticare su cosa posso diventare senza aspettarmi che nessuno poi ci voglia abitare… nelle tasche porto solo cenere, le mie tasche sono sempre bucate e quando il cerchio si chiude mi ritrovo sempre a casa.

Forse la gente se n’era andata ai primi colpi di arma da fuoco… Eppure la coda dell’occhio non aveva visto né crinoline in fuga né uomini urlanti. Mi giro, guardo meglio, e le case non sono più case ma quinte, scenografie per un vecchio film americano. Vedo adesso che il mio valoroso opponente era solo un bersaglio di cartone e la mia pistola con il manico in madreperla solo il sogno di una comparsa buffone. Getto la maschera per il mio addio, sono lo scherno di dio. Fai di me il tuo rimpianto e lascia che l’esercito e i suoi più umili servitori possano rimpatriare, in fondo i cinici lo ripetono al vento che niente dura. Ti regalerò un libro con immagini di dei, potrai così appagare il tuo desiderio d’infinito. E adesso lasciami piangere questo pungere del vento. Il dolore ci rinnova la vita come la gioia la colora.

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Posted by on domenica, Febbraio 24, 2019 in Racconti |

Stagioni – Primavera

Continuiamo a ospitare nel blog i contributi delle amiche dello storico gruppo di scrittura La Pluma. Carla Manci ci propone il secondo racconto della sua serie dedicata alle stagioni (il primo, Inverno, pubblicato il 17 febbraio). Buona lettura!

Primavera

Che stupido, stavo guardando i miei libri e ne ho notati due o tre non perfettamente allineati. Erano spinti leggermente in avanti, con intenzione. E ho pensato fossi stata tu, per farmi un dispetto o per vedere quanto ci avrei messo ad accorgermene. Me ne sono accorto adesso. E ho riso molto di me e del fatto che faccia così fatica a infilarmi nel cervello qualcosa di diverso da te. Vaneggio, fisso il soffitto per ore come in un cinematografo incantato…

 

Certe sere vengo a prenderti con il cuore in mano come un mazzo di fiori e l’anima piegata sul braccio come un cappotto da mezza stagione. Dopo cena, indugio con finta galanteria sul tuo portone aspettando che l’aria si faccia fresca solo per poggiarti quell’anima sulle spalle e farti sentire che è su misura per te. Una volta una persona mi disse “l’amore non si prova, s’indossa direttamente e non sai mai come ti starà addosso”. Quanto è vero.

 

Ecco, sono il sarto di Panama, nascondo mille segreti sotto il cappello. Prendo le misure a gentiluomini di fortuna e carpisco loro informazioni. Sono una spia e tu un’avventuriera di passaggio che sta solo da una parte: la sua. Io prendo le misure, cerco la giusta distanza ma per quanto ci siano strappi dappertutto, sulla pelle, negli sguardi, le nostre anime restano cucite insieme. Chiudimi gli occhi, non posso guardare tutta questa tristezza.

 

Bisognerebbe spogliarsi dei sogni sempre sul far della primavera perché tutta quella bellezza li renderà insopportabili. Ma ho ancora qualche giorno, qualche scena da rivedere. Potessi fermarmi a quand’eri il mio ospite d’inverno, quando tutto era così furiosamente composto, misurato. Ogni giorno scendevi per pranzo e che gioia mangiare e bere insieme, oppure per l’ora del te, parlando di tutto tranne che di noi. Chiudimi gli occhi, non posso guardare.

 

Appoggerò le mie dita sui tuoi occhi per non farti vedere il lato scuro del futuro. La primavera ti farà dimenticare che i bordi delle nostre vite resteranno uniti per sempre. È così che vedrò il tuo domani anche quando non vorrei assistere a niente che non riguardi anche me. Avevo bisogno di sentire le tue risate, di voltarmi nel letto e sentire il tuo profumo. Tu che riaccendi la luce nell’inverno che finisce, che sei il lampionaio dei vicoli più stretti, tu l’amante insolita che bussa sul mio collo. Io sono un cinico, un egoista, uno che non crede alle parole. Allora se puoi incantami con altre cose… Aspetto fino alle sei.

 

Troppo presto, sai che non arrivo mai prima della mezzanotte. Sono il re dei vampiri e vedi, sto attraversando gli oceani del tempo per te, riavvolgendo le scene, la vita a riflettori spenti. La mia anima l’ho perduta per arrivare a te e ora del resto poco m’importa. Vago nella notte ma non cerco prede, non mangio più, non bevo più, mi sto lasciando morire, deliberatamente, perché non voglio esistere senza di te. Non più. Dovremmo essere felici, dovremmo essere fra amici.

 

Che ci facciamo qui sul ciglio di un perdono, davanti al plotone di un addio. Quante volte ci siamo detti addio, quante volte ci siamo perdonati. Che ci facciamo in un film di guerra, non siamo eroi. Ci sono molti inferni da superare e un solo improbabile paradiso che di certo non ci attende. Come si fa a restare così, con una lama nel cuore, senza morire. E giornate che si allungano solo per avere più tempo per soffrire. Chiudimi gli occhi, non voglio guardare.

 

A che serve questa primavera piovosa se non passi da qui a riportarmi i colori che piano piano, matita dopo matita ti avevo chiesto di conservare per me, rendendoti con l’amore della fiducia il custode del Bene? Non dirmi che serve veramente la tranquillità che porta la ragione, che tutto passerà e che ci sono all’orizzonte buone promesse. Queste son cose che so, son esperienze che conserva la mente, come certe giornate che sembrano non finire mai e finiscono comunque.

 

Ma cosa racconto alla voglia di voltarmi e vederti che ridi, al senso di malinconia che mi da sapere di non riabbracciarti, per consapevole nostra scelta. Forse ti ho preparato per il grande amore e capirai, come ho capito io, che non ti ho dato niente pur volendo darti molto. E avrai pena di me. Continua ad amarmi mentre te ne vai… continua ad amarmi.

 

Smettere di amarti? Come potrei. Sono un esploratore alla ricerca di qualcosa di perduto. Ho un abisso da visitare con la mia anima. Non ne ho mai avuto il coraggio. L’ho visitato con la ragione e sono impazzito. L’ho visitato col cuore e ha smesso di battere per l’orrore. Forse solo guardandolo con la mia anima smetterà di inghiottirmi, di chiamarmi. Solo allora sarò reale, tienimi la mano mentre apro gli occhi, devo guardare.

 

Sono un lord d’altri tempi. Compassato, distaccato. Non mi avvicino mai troppo, non faccio mai una piega. Ho un rammendo qui sul cuore, ma è invisibile, me l’ha fatto il sarto di Panama. Porto un fularino per coprire un piccolo segno che mi ha lasciato un’avventuriera mordendomi sul collo una notte. Verrò a prenderti una sera con l’anima piegata sul braccio come un cappotto da mezza stagione e lo spettacolo di una vita che non ammette altro finale.

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Posted by on domenica, Febbraio 17, 2019 in Racconti |

Stagioni – Inverno

Continuiamo a ospitare nel blog i contributi delle amiche dello storico gruppo di scrittura La Pluma. Carla Manci ci propone una serie di brevi racconti, ognuno dedicato ad una stagione. Buona lettura!

Inverno

Alcuni cuori, il mio cuore, è una conchiglia. Ma solo se appoggiato ad alcune anime e alcune soltanto, io sento il mare e posso viaggiare. Per poi raccontare storie di nebbie, vuoti e abissi che casualmente incontro e poi passo una vita a cercare d’incontrare di nuovo, invano. Sono anime speciali quelle che si perdono, se no non ci sentirei il mare. Ma io so soltanto navigare. Di tutto il resto poco m’importa, lo posso comprare, fabbricare, inventare.

 

Il mare no, come l’anima, è l’unica cosa che si da sola, quando vuole. Anche il cuore, ma lui si rompe, si gonfia, scoppia, trema. La testa mormora, brontola, grida. Il corpo vuole, reclama, scalpita. Per questo prediligo l’anima. È l’unica cosa che può farti stare immobile sull’orlo di un baratro senza paura di cadere. L’anima non esita, non vacilla, sussurra. Regala una fierezza e una forza che null’altro può dare. La mia anima spesso mi lascia perché è facile ad offendersi. Ma quando mi abita fa del mio cuore una conchiglia e posso sentire e sapere all’unisono.

 

Da tempo ho rinunciato a trovarle un compagno, a volte spontaneamente lei si accompagna perché sente il mare. E allora, allora soltanto non mi sento solo. E me ne vado in giro per il mondo ascoltando, predando appunti, a tracciare rotte per il prossimo ritorno perché già so che presto si perderà di nuovo. La vita offende l’anima ogni giorno. Ma i giorni con l’anima rendono sopportabile la vita. Senza ordini di nessuno sono sopravvissuto dove altri non hanno saputo. Ho resistito a condizioni estreme. Questo ha fatto di me un marinaio. Questo ha fatto del mio cuore una conchiglia. Devo appoggiarlo alla tua anima per sentire.

 

Tu sei la mia marea. Persa come pagine slegate dal vento che gioca. È il destino che ride, è il destino che si diverte. Resta a bocca aperta, lungamente, come un bambino che crea dispetti. Sono gli scherzi del destino che risvegliano la memoria. Sono due soli giorni lontani che bastano per cedere. Così tingo il vestito e lo indosso fingendo che sia un’altra cosa. Il destino, lui ride. Come un bambino è felice. Come un bambino non conosce se stesso, semplicemente accade. Come tu non sai quanto assomigli all’abisso che una volta mi ha già inghiottito.

 

Ora il cielo è beffardo, vedi? Fa i suoi commenti e devi guardarlo bene per capire che parla con te, perché magari pensi parli col tuo vicino e perdi qualche precisazione sui fatti accaduti. Se tu fossi rimasta un po’ di meno al limite della scogliera avresti cancellato la paura dai sorrisi che escono asimmetrici dallo sforzo dei muscoli sul tuo viso. Chi ti conosce bene lo vede che non sorridi. Se tu fossi rimasta un po’ di più sull’orlo del precipizio avresti visto che in fondo non è così terribile il vuoto che c’è sotto, il tempo l’ha riempito di terra e alberi, di funghi e muschi. Se tu fossi rimasta il tempo giusto, quello che era stato deciso dalla tua vita stessa, avresti fatto pace col dolore, con l’amore e li avresti presi a braccetto entrambi come vecchi amici. Sareste andati in buona compagnia a bere qualcosa. Non piangere, non maledire né questo né quello, non spengere, non infiammare. Parla con me… il giorno viene.

 

Poi un altro giorno, uno dopo l’altro, come una collana di perle, magnifiche, che non posso indossare. Che ne posso fare di tutte queste perle che solitarie s’induriscono nei miei giorni,

intorno alla mia gola che respira. Parla con me, raccontami ogni cosa, terrò tutto in uno scrigno,

come le più preziose delle gemme. Mio sconosciuto tesoro, ti ho trovato, non ti posso aprire, non posso forzare, non sono un pirata, solo un marinaio. Me ne sto qui, sulla mia barca rovesciata, inaspettatamente, tranquillamente, come avessi sempre saputo che doveva andare così. Non ho paura, non ho ansia, guardo il cielo, lui mi parla dell’abisso, delle perle che vi ho già perduto. Accosto la conchiglia, da lontano, molta acqua verrà dai ghiacciai del cuore che si sciolgono in un canto muto. Parla con me.

 

Come passi le giornate? Guarda l’orizzonte accanto alla mia barca rovesciata, anche lui è fermo, terso, è già inverno. Alzo il bavero della giacca e mi pulisco le unghie con un pezzo di mare. Quel mare che ci chiama ma non vogliamo rispondere, quel mare che ci vuole, a cui ci neghiamo. Non sopportiamo più la paura di non avere remi, non ci lasceremmo mai portare dove lui vuole. Eppure guarda, il mare ci ha regalato quelle perle che sul filo ci fanno soffocare, forse non ha calcolato bene la misura del collo, ma si sa, è maldestro il mare.
Dimmi, come resisti all’onda che ti strappa l’anima? Racconto le mie favole a te che te ne stai seduta tra le tue nostalgie, che tremi di caldo e di solitudini, solo perché so che ogni mia parola è una mano tesa. Lontana. Poi mi dici che porrai rimedio, rimedio a ogni cosa. Ne sono lieto. Come pensi di porre rimedio a tutto questo mare? Davvero credi basti qualche giorno di bassa marea, questi finti divieti? È già passato il momento in cui me ne potevo andare, in cui mi potevo salvare. Non ho voluto. Ho scelto di rimanere per il tuo canto muto. Perché diversamente mi sentivo già perduto e intorno a te ho visto scendere il buio. Come sarei potuto partire?

 

Mio padre era un marinaio, mia madre una sirena. Sono un bastardo del mare, anche io so cantare. Dentro. Perché me ne sarei dovuto andare da un posto in cui mi sento così perfettamente amato. Tu chiamalo bene se fa meno male, passami la conchiglia, lasciami annegare. Davanti a questo vento impazzito mi ripiego come una bandiera. Forse il momento perfetto per partire insieme è andato perduto. Per ora. Ma io mi fido dell’istinto e del coraggio delle onde. Molte cose succederanno. Non andare a cercare rimedi per questa mia vita da spiaggia. Sono stanco, voglio riposare accanto a te, alla mia barca rovesciata. L’ho rovesciata di proposito. Ero venuto per andarmene e invece guarda, mi sono fermato qui, per te. È già inverno. Se avremo freddo legna ne ho, ci scalderà entrambi.

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