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Posted by on domenica, Febbraio 26, 2023 in Streghe | 1 comment

Poëtflix

Nella seconda metà di febbraio ho dedicato alcuni giorni alla visione della nuova serie Netflix di produzione italiana, La legge di Lidia Poët. Normalmente non vedo film o serie italiane, avendo un forte pregiudizio – che i fatti non smentiscono: ricordo bene quanto mi delusero la serie pseudo-horror Curon o il pluriacclamato È stata la mano di Dio. Ma ho fatto un’eccezione, perché nella mia bolla social e tra gli intellettuali della mia chiesa (valdese) si era creata una forte aspettativa per questa serie, andata in onda proprio il 15 febbraio, due giorni prima della Festa della libertà, mentre alle Valli valdesi si preparavano gli annuali falò. Eh, sì: Lidia Poët era valdese e quindi c’era la curiosità di vedere se e come la serie avrebbe trattato questo aspetto.

COMUNICAZIONE DI SERVIZIO – a partire da qui il post contiene pesanti spoiler – proseguite a vostro rischio e pericolo!

Come dicevamo prima del caveat, Lidia Poët era valdese. Nacque a Traverse di Perrero (Val Germanasca) da un’agiata famiglia valdese nel 1855 e morì a Diano Marina nel 1949 (fonte Wikipedia). I soli elementi di realtà biografica conservati nella fiction sono:

  • Si laureò in Giurisprudenza nel 1881;
  • Svolse praticantato da avvocata;
  • Chiese l’iscrizione all’Ordine degli Avvocati e fu ammessa in prima battuta (9 agosto 1883);
  • Il procuratore del Regno impugnò la decisione presso la Corte d’Appello, che ordinò la cancellazione di Poët dall’albo;
  • Poët fece ricorso in Cassazione, che lo rigettò il 18 aprile 1884, con argomentazioni degne dei Talebani, fedelmente riportate;
  • Poët non poté esercitare la professione ma collaborò nello studio del fratello Giovanni Enrico.

Spoiler per eventuali successive stagioni: solo nel 1920 Poët (all’età di 65 anni) poté entrare nell’Ordine degli Avvocati.

Per il resto, la serie investa pesantemente il background della Nostra, trasferisce il tutto da Pinerolo alla più fotogenica Torino e soprattutto omette la valdesia dell’eroina. Lidia diventa un’avvocata stile Perry Mason, che compie indagini in proprio per scagionare i propri assistiti, aiutata con riluttanza dal fratello. Tale fratello nella realtà storica non si sposò mai (come del resto Lidia) ma gli viene inventata di sana pianta una famiglia con moglie conservatrice, figlia in fregola e cognato giornalista bel tenebroso. Orbene, non ho nulla contro la trasformazione in occasionali detective di illustri personaggi storici: è stato fatto innumerevoli volte, da Aristotele a Leonardo da Vinci, passando per Dante Alighieri (vedrei bene Le indagini di Giovanni Pascoli, la cui Cavallina Storna sarebbe un partner mica male). Qualche anno fa Netflix distribuì una serie austriaca sugli inizi della carriera di Sigmund Freud, che si trovava ad affrontare una sorta di setta di nobili ungheresi che commettevano orribili delitti. La serie funzionava perché: 1) le radici ebraiche di Freud non erano nascoste, anzi, si metteva il risalto il conflitto con la famiglia osservante; 2) la storia thriller – horror aveva senso e ritmo.

Nella Legge di Lidia Poët invece le radici valdesi sono rimosse e ignorate, e quel che è peggio è che la storia poliziesca – che costituisce la cosiddetta “trama verticale” (un caso di omicidio da risolvere a ogni puntata) non funziona. Viene definita crime – procedural ma il procedural non c’è (si arriva al dibattimento in aula una volta sola, e le abilità avvocatesche di Lidia Poët sono tali che la sua assistita si dichiara colpevole). E il crime è proprio scarso:: il metodo d’indagine di Lidia Poët si riduce all’andare in giro di qua e di là, interrogare a casaccio le persone coinvolte e infine incastrare l’assassino dicendogli “sei stato tu” col che il reo crolla subito o si tradisce perdendo la calma. Lidia Poët, con un discreto tasso di anacronismo, introduce pionieristici metodi d’indagine come l’analisi delle impronte digitali e il poligrafo (primordiale macchina della verità) che sarebbero stati utilizzati nella realtà dieci anni dopo, per non menzionare il modernissimo modello di bicicletta che inforca. Non parliamo poi della cosiddetta trama orizzontale, ovvero l’enigma dello strano comportamento del fascinoso cognato. Alla fine, per la gioia di Nordio e Delmastro, viene fuori che è colpa degli anarchici.

Potremmo aggiungere che gli attori più rinomati (l’emergente Matilda De Angelis nel ruolo del titolo e il pronipote d’arte Eduardo Scarpetta alias il cognato) recitano tristemente “all’italiana”, tra urla e sussurri che costringono a regolare in continuazione il volume. I più bravi a recitare sono i caratteristi. Può suscitare qualche perplessità anche il gratuito uso del turpiloquio (non penso che la buona borghesia piemontese del 1883 dicesse “caz*o” a ogni piè sospinto), per non parlare della disinvoltura erotica della protagonista (si sa che un personaggio femminile di spicco deve sempre essere sessualizzato pesantemente, a meno che non sia Madre Teresa di Calcutta). Le battaglie sociali condotte dalla vera Lidia Poët (difesa degli emarginati, umanizzazione delle carceri, suffragio femminile) vengono così banalizzate.

Come ci si poteva attendere, la lingua comune dei personaggi è il classico pidgin romanesco tipico delle produzioni italiane. E dire che il produttore, Matteo Rovere, aveva diretto qualche anno fa Romulus, una serie in proto-latino. Vista la sciatteria del tutto, non ci si stupisce che (33 volte su 36 a un conteggio approssimativo) il cognome della protagonista si apronunciato Pòet anziché Poèt.

Insomma, sarebbe stato meglio se la serie si fosse chiamata Lidia Rebaudengo: l’intellettualità valdese non sarebbe rimasta delusa, io non avrei perso il mio tempo a vedere la serie, né voi l’avreste perso a leggere questo post.

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Posted by on sabato, Febbraio 11, 2023 in Pillole di Blog, Streghe |

Weekend salati

Con l’arrivo dell’anno nuovo e dei giorni più freddi dell’inverno ho cominciato a dedicare il sabato mattina alla preparazione di torte salate. Le ricette non le ricavo dall’ancestrale sapienza delle donne della mia stirpe, ma più banalmente dalla Rete. Non sono mai stata una che ama cucinare per il gusto di farlo, né che si alza a ore antelucane per preparare la pasta. Acquisto gli imgredienti pronti – anche surgelati se necessario – al supermercato di prossimità. Torta ai carciofi, torta con zucchine e cotto, gateau di patate e bietole, in mezza mattinata escono dal forno, ben odorose e appetitose, e vengono consumate nelle cene di sabato e domenica. In questo periodo freddo e triste dell’anno, mentre fuori infuriano la guerra, la crisi economica, il governo post-fascista e il Festival di Sanremo, preparare e poi mangiare in coppia una buona torta fa bene al portafoglio e all’umore, allo stomaco e all’autostima.

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Posted by on sabato, Giugno 25, 2022 in Streghe |

La gnefra e lo gnefro

Quando ero piccola, mia mamma mi rimproverava spesso Non fare la gnefra!  Il termine (che era usato anche al maschile) è quello che tecnicamente si definisce eufemismo per metatesi. Ovvero, si spostano due lettere e così – pur intendendo proprio quella parola – si evita di dire la parola fr*gna, uno dei tanti modi con cui si designa l’organo sessuale femminile. Applicato alle persone, di solito fr*gno/a (soprattutto con gli accrescitivi fr*gnone/a) vuol dire stupido, babbeo, minchione. Ma a Terni la fr*gna – o meglio gnefra – è una persona lagnosa, lamentosa, manipolativa: tipologie di persone (soprattutto donne) che ho incontrato in abbondanza nella vita lavorativa. C’era anche la gnefra alla riunione? e ci capiamo subito.

Inoltre, proprio nel ternano lo gnefro è una creatura leggendaria che ama vivere in gruppi numerosi lungo la Nera e presso la cascata delle Marmore. La creatura assomiglia a uno gnomo o folletto alto meno di un metro, appare specialmente di notte e ama fare dispetti ai viandanti solitari. Altri li considerano più benigni e protettori delle case. L’iconografia mostra gnefri di tutti i tipi: possono assomigliare a bambini piccoli con pelle ruvida e cresposa, a elfi domestici stile Harry Potter o a Pokémon evolutisi male.

Post scriptum: non confondere lo gnefro con lo gnegno. Anche quest’ultimo è una sorta di nano o gnomo, ma è stato inventato da David Riondino nella canzone omonima per parodiare lo stile Branduardi.

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Posted by on sabato, Gennaio 8, 2022 in Fede, Streghe |

La buena educación

Mia figlia è in gita a Roma con le zie e i cuginetti. Ieri hanno visto la basilica di San Pietro e il Vaticano. Effetto collaterale: mi ha confessato di essere ancora più fiera di avere ricevuto un’educazione protestante.

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Posted by on sabato, Luglio 31, 2021 in Streghe, Wurstel |

Vivi e lascia vivere

Nove giorni di ferie in Versilia con i parenti di mio marito hanno posto – tra gli altri – il problema di cosa vedere la sera sullo schermo televisivo. A casa per tutto l’anno risolviamo la questione con serie e film su Netflix o Prime Video – più raramente Rai Play, salvo rare eccezioni legate per lo più a eventi calcistici (Champions League, Europei). Ma in vacanza con la parentela questo non si può certo fare, non sarebbe opportuno chiudersi in camera col tablet mentre gli altri stanno in salotto. Quindi dobbiamo riscoprire quel mondo ormai sconosciuto che è la TV generalista italiana.

Per fortuna, quasi tutte le sere abbiamo trovato film – classici o meno – abbastanza potabili (tra cui il mitico Arsenico e vecchi merletti, risalente agli anni 40 e inopinatamente programmato su TV 2000, la TV del Vaticano, che almeno per una volta è servito a qualcosa). Ma domenica 18 luglio non c’era proprio verso: il capriccioso telecomando di mio suocero (letteralmente attaccato con lo sputo) si è bloccato sul meno peggio, ovvero Raiuno che la replica proponeva della fiction italiana Vivi e lascia vivere, che era stata trasmessa nella primavera 2020 senza lasciare tracce apparenti nella storia del nostro Belpaese. Già siamo partiti col piede sbagliato: io diffido istintivamente di qualunque opera narrativa (film, libro, serie) che come titolo porti un proverbio o un modo di dire. Mi pare un modo di barare, di non dare al lettore o spettatore alcun indizio sul potenziale contenuto della storia. Come se Dante Alighieri avesse intitolato il suo divino poema Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio, o Manzoni avesse scritto Moglie e buoi dei paesi tuoi.

Siamo riusciti a vederne solo un episodio e mezzo sui dodici programmati (durata di ciascuno 50 minuti, inframmezzati da quintali di pubblicità, altra cosa a cui non eravamo più abituati), prima di soccombere alla sonnolenza. La visione ha confermato tutti i miei pregiudizi sulle produzioni italiane: recitazione pessima (dalla protagonista Elena Sofia Ricci in giù), buchi di trama, inverosimiglianze varie, ritmi lentissimi. La protagonista, a nome Laura, è sposata con un ludopatico che di mestiere canta sulle navi da crociera, del quale apprende la morte, avvenuta in circostanze misteriose a Tenerife. Ha due figlie e un figlio. La maggiore, Nina, smania per fare un non meglio precisato master a New York, ma di fronte alle difficoltà economiche della famiglia si rassegna a fare la cubista in un bar equivoco. La seconda, Giada, ha come hobby il taccheggio nei grandi magazzini e in un abito rubato scopre per caso il diario di un’altra ragazza (spunto narrativo appena abbozzato e, almeno nella prima ora di visione, abbandonato). Il maschio, Giovanni, è nella squadra di pallanuoto, il cui allenatore tiene discorsi che dovrebbero essere motivanti e invece sono più noiosi dell’elenco telefonico (nostalgia del Marca Budavari! del grande Silvio Orlando in Palombella rossa). Nonostante la famiglia sia con le pezze al sedere (bollette e rate di mutuo non pagate da mesi) vivono in una casa enorme e Laura può permettersi viaggi andata e ritorno Napoli – Tenerife. L’annuncio che la madre fa ai figli della morte di Renato, il cantante ludopatico, è piatto come la lettura dell’ordine del giorno dell’assemblea ordinaria di una società in accomandita. Del resto, anche la celebrazione funebre assomiglia a un aperitivo aziendale, ravvivato solo dalla sorella del defunto che canta Summertime in un modo che avrebbe fatto rivoltare nella tomba George Gershwin (spoiler: purtroppo non avviene, la storia ci avrebbe guadagnato).

A Tenerife la morte di Renato, avvenuta a quanto pare nell’esplosione di una palazzina – è gestita con sorprendente noncuranza da tutti gli abitanti del luogo. Nonostante le fiction italiane siano piene di commissari e marescialli, qui non c’è uno straccio di tutore dell’ordine o di investigatore privato che indaghi. L’impiegato della pensione Florida di Tenerife (su Google Maps esiste un Hotel Florida, quotazione 3,3 su 5), non si fa problemi a consegnare – su semplice esibizione della carta d’identità di Laura – alla supposta vedova gli effetti personali del defunto, già cellofanati.

Il ritmo è lento anche perché i protagonisti impiegano minuti interminabili a deprimersi per la loro situazione, anziché fare qualcosa. In una serie non italiana, in novanta minuti, Laura avrebbe trovato il tempo di reinventarsi professionalmente come boss della droga, con accenti thriller (produzione USA), da commedia degli equivoci (francese) o di rivalsa sociale (inglese).

Laura lavora in un ristorante la cui padrona è una sadica che ama umiliare i/le dipendenti (momento Ken Loach, non sviluppato). Perde il lavoro perché beccata a rubare contanti dalla cassa del ristorante. A quanto pare troverà il riscatto umano e professionale preparando un sartù per la prima comunione della figlia di una collega, ma a quel punto eravamo già cotti.

Tornando a casa ho letto su Wikipedia che Vivi e lascia vivere ha avuto giudizi lusinghieri da critica e pubblico. Se questi sono i migliori prodotti italiani, figuriamoci i peggiori.

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Posted by on sabato, Aprile 24, 2021 in Streghe, Wurstel |

La ronda del piacere

Alla mattina capita spesso di svegliarsi con in testa musiche riemerse da chissà quale abisso dell’inconscio, arcaiche e spesso politicamente scorrette. Così pochi giorni fa mi è capitato di intonare, preparando la colazione, il Tango delle capinere. La canzone (di Bixio – non quello di Garibaldi – e Cherubini) si presenta con un folgorante incipit che ci proietta in un mondo esotico.

Laggiù nell’Arizona / terra di sogni e di chimere / se una chitarra suona / cantano mille capinere

Nel 1928 non c’erano ancora i western di John Ford e i fumetti di Tex Willer, quindi poteva starci che l’Arizona richiamasse alla mente chitarre e tango, invece che il deserto, la Monument Valley o i pistoleros. La scelta dell’Arizona, anziché di un qualunque luogo del Sudamerica, sembra dettata solo da esigenze di rima. Le capinere, ovviamente, non sono uccelli (gli ornitologi assicurano che tale specie aviaria non alligna da quelle parti). Secondo la lezione del grande verista Giovanni Verga, la capinera designa poeticamente la donna professionalmente traviata, ovvero la prostituta. Dobbiamo quindi immaginarci un mega-bordello, un sessuodromo organizzato su scala taylorista, dove – presumibilmente prima dell’apertura al pubblico, per scaldarsi e creare un senso di appartenenza, oppure all’inizio delle attività, per attirare la clientela – una corale di mille sex workers si sgola a cantare un tango, accompagnata da un chitarrista di servizio. (Nei film di solito nei bordelli c’è il pianista, ma tant’è).

Secondo i dettami di Henry Ford, il prodotto deve essere omogeneo e fatto in serie (tutte quante hanno la chioma bruna) e l’etica del lavoro deve essere ferrea, ma nel contempo appassionata (hanno la febbre in cuor).

Ricordiamo che all’epoca la città più popolosa dell’Arizona era Phoenix, con poco più di 45.000 abitanti: evidentemente si trattava di una company town, in cui, comprendendo tutto l’indotto, almeno il dieci per cento dei residenti campavano sulla filiera del sesso mercenario.

Ovviamente non è così: poiché per il Regime il Paese era morigerato e pacificato, sotto l’occhio vigile del Duce nel nome di Dio – Patria – Famiglia (alla firma del Concordato mancava solo un anno), qualunque cosa equivoca e/o trasgressiva andava spostata fuori dal sacro suolo italico. nei gialli l’assassino era sempre straniero, i film dei telefoni bianchi erano ambientati in Ungheria, e i maschi allupati andavano a puttane in Arizona.

Dopo la strofa viene il ritornello, ancora più evocativo: A mezzanotte va / la ronda del piacere / e nell’oscurità / ognuno vuol godere.

In terra di western, le ronde fanno pensare ai vigilantes: l’istituzione di ronde di bravi cittadini per reprimere la devianza è da sempre uno dei cavalli di battaglia dei partiti di destra. Ci si può chiedere che cosa costituisca “devianza” in una città la cui sussistenza si basa sulla prostituzione. Forse i vigilantes vanno a caccia di capinere fuggitive, o di clienti morosi che non vogliono pagare la prestazione.

Più probabilmente, la ronda del piacere allude ai clienti che si muovono in branco: a produzione di massa corrisponde consumo di massa. Ovviamente, si gode nell’oscurità: le raffinatezze tipo abat-jour e luci soffuse le lasciamo ai decadenti parigini.

Perché questa canzone mi è salita alla mente proprio in questi giorni? Forse perché il dibattito politico ha toccato il tema del coprifuoco. Con le norme vigenti, la ronda del piacere a mezzanotte dovrebbe starsene in casa. ma si può facilmente – senza far oltraggio alla metrica – adattare la canzone ai tempi che corrono:

Alle ventuno va / la ronda del piacere …

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