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Posted by on sabato, Febbraio 17, 2018 in Fede, Politica |

Centosettant’anni dopo

Il primo “17 febbraio” non ebbe luogo il 17 febbraio. Ce lo ricorda Giorgio Tourn (“1848-1948: un secolo di vicende” in G.Tourn e B.Peyrot, Breve storia della festa del 17 febbraio, Società di Studi Valdesi, 1994). Infatti, la pubblicazione delle Lettere Patenti, con cui Carlo Alberto di Savoia concedeva a valdesi ed ebrei la pienezza dei diritti civili e politici al pari degli altri cittadini, fu rinviata di alcuni giorni per motivi di “ordine pubblico”. Fu la Gazzetta Ufficiale del regno savoiardo ad annunciare il 24 febbraio 1848 che il giorno dopo sarebbero state pubblicate le Lettere; la sera del 24 due studenti valdesi partirono da Torino con una carrozza presa a noleggio, recando la lieta novella prima ai valdesi di Pinerolo, poi al Moderatore di allora, che risiedeva a Luserna San Giovanni. Nel cuore della notte, messaggeri volontari diffusero la notizia in tutte le borgate e i villaggi. Così, fu il 25 che l’entusiasmo popolare si manifestò con cortei, banchetti, un’assemblea improvvisata nell’antico tempio dei Coppieri e infine, la sera, i falò che da allora sono il simbolo della “festa dei valdesi” (vedi la ricostruzione in A.Armand Hugon, Storia dei Valdesi 2, Claudiana 1984). Una festa il cui significato travalica la piccola minoranza religiosa di cui faccio parte, tant’è vero che da sempre i valdesi la declinano come Festa della libertà, di tutte le libertà per tutti. La storia ci ha insegnato che le libertà non sono da dare per scontate una volta per tutte; che gli stessi che te le hanno graziosamente concesse domani te le possono togliere (la dinastia che emancipò valdesi ed ebrei, novant’anni dopo si rese responsabile dell’orrore delle leggi razziali); che i diritti si devono conquistare ogni giorno, ed estendere prendendoseli, al di là delle formulazioni formali. Anche se le Lettere Patenti precisavano che nulla è innovato quanto all’esercizio del culto (…) i valdesi approfittarono dello spiraglio apertosi per dare il via all’opera di evangelizzazione, costruendo templi ovunque possibile. Il popolo ha costruito il mito del “Re emancipatore”, ma Carlo Alberto non avrebbe mai firmato le Lettere Patenti se non avesse dato ascolto a cattolici liberali e illuminati come D’Azeglio, Cavour, Gioberti. E questi ultimi non avrebbero prevalso sui reazionari o sui moderati (come il vescovo Charvaz, che preferiva attendere il parere del papa, ma nel frattempo metteva in guardia contro la perniciosissima emancipazione dei protestanti), se non ci fosse stato “il Quarantotto”, un’Europa percorsa da moti e proteste che rivendicavano Costituzioni e diritti disturbando i manovratori. Certo, nel 1848 non si parlava (ancora) di diritti sociali, come non se ne parla (più) oggi. Oggi, sia per i diritti civili che quelli sociali, prevale la visione che si tratti di un gioco a somma zero. Più diritti agli altri li tolgono a me. Se riconosco le coppie gay, danneggio la famiglia tradizionale; se consento la costruzione di una moschea, turbo la fede dei bravi cristiani; se garantisco la difesa dal licenziamento ingiusto al lavoratore dipendente, discrimino il disoccupato (nel dubbio, meglio levare il diritto a tutti); se dò la cittadinanza al ragazzo di origine straniera, faccio male all’autoctono. E così via.

Insomma, la lotta per i diritti (civili e politici come sociali: guai a dissociarli) non finisce mai. E la cosa più difficile è capire, e far capire, che i diritti altrui sono anche i miei, e che non siamo liberi finché non lo sono tutti e tutte. Buon 17 febbraio.


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