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Posted by on domenica, Febbraio 11, 2018 in Midrash, Politica |

Commentario alla Desolazione (decima e ultima strofa)

E qui si conclude l’avventura, la pazza idea di Giorgio Guelmani di commentare, strofa per strofa, la leggendaria ed enigmatica Desolation Row di Bob Dylan. Ricordo i post precedenti: l’introduzione generale (31 gennaio 2017), la prima strofa (18 febbraio), la seconda strofa (25 marzo), la terza strofa (27 aprile), la quarta strofa (27 maggio), la quinta strofa (1 luglio), la sesta strofa (23 settembre), la settima strofa (14 ottobre), l’ottava strofa (18 novembre), la nona strofa (7 gennaio 2018). E avanti, verso nuove sfide!

1   Yes, I received your letter yesterday
(about the time the door knob broke)
When you asked how I was doing
Was that some kind of joke?
5   All the people that you mention
Yes, I know them, they’re quite lame
I had to rearrange their faces
And give them all another name
Right now, I can’t read too good
10  Don’t send me no more letters no
Not unless you mail them
From Desolation Row

Dopo l’assolo di armonica, si va verso la fine della lunga ballata. Generalmente canzoni così terminano con l’autore che riprende in mano il filo della trama, intervenendo in prima persona e proponendo una prima interpretazione alla sequela di immagini visionarie che ci ha ammannito. Faccio un solo esempio: Cercando un altro Egitto di Francesco De Gregori. Canzone del 1974 in cui i calchi di Desolation Row sono evidenti e sicuramente voluti. Abbiamo l’uomo all’angolo, vestito da poeta, che vende fotografie virate seppia; abbiamo il Terzo Reparto Celere che controlla, l’ufficiale uncinato e i bambini che sono tutti a volare (allusione alla canzone Auschwitz di Guccini). Ebbene, la strofa conclusiva recita Un amico d’infanzia, dopo questa canzone / mi ha detto “è bellissima, è un incubo riuscito” / ma dimmi, sogni spesso le cose che hai scritto / oppure le hai inventate solo per scandalizzarmi? Ci dobbiamo attendere, quindi, che non solo Dylan, nell’ultima strofa, ricapitoli il senso di ciò che ha visto e scritto, ma anche che abbozzi un dialogo con un invisibile You, che rappresenta il pubblico degli interlocutori più vicini. E il menestrello di Duluth non ci delude. Partiamo con la traduzione.

1-4. Sì, ho ricevuto ieri la tua lettera, più o meno quando si è rotta la maniglia della porta. Quando mi hai chiesto come stavo cos’era, una specie di scherzo?  A che lettera si riferisce Dylan? Tre sono le interpretazioni correnti tra gli esegeti. La prima è che faccia allusione alla Open Letter to Bob Dylan, pubblicata nel novembre 1964 sulla rivista trimestrale di musica folk Sing Out! Autore della Lettera Aperta era Irwin Silber (1925-2010), cofondatore e a lungo direttore della rivista. Nel link sotto il testo integrale in originale della lettera.

http://www.edlis.org/twice/threads/open_letter_to_bob_dylan.html

Silber, in sostanza, reagendo a caldo all’album di Dylan, Another Side of Bob Dylan (uscito nell’agosto 1964), e alla sua esibizione annuale a Newport (non quella della svolta elettrica e del diverbio con Pete Seeger) scriveva con amarezza (e un po’ di paternalismo) al giovane folksinger “Si direbbe che tu sia interessato a tutt’altre cose in questo momento, Bob – il che mi preoccupa. A Newport mi sono accorto che hai sostanzialmente perso di vista la gente. Ho avuto la sensazione che il corredo della fama abbia iniziato a esserti di intralcio (…) le tue nuove canzoni in questo momento sembrano tutte rivolte al tuo intimo (…) la Macchina Americana del Successo fagocita geni alla velocità di uno al giorno e tuttavia non è mai sazia …”. Quattro anni dopo, Silber riconobbe la futilità di un simile appello pubblico e fece autocritica “alcuni di noi, cresciuti a forza di canzoni di Guthrie e Seeger (…) non erano pronti ad accettare le implicazioni rivoluzionarie delle affermazioni di Dylan (…) Dylan è il nostro poeta, non il nostro leader”. Ma ormai la frittata era fatta: anche se Dylan – di tanto in tanto – avrebbe in futuro prodotto qualche canzone “militante” (pensiamo a Hurricane, George Jackson, o a pezzi meno conosciuti come Julius and Ethel), non sarebbbe mai più stato un “intellettuale organico” (per dirla all’europea), a un Movement che stava, comunque, per disperdersi in mille rivoli. Quindi, se la prima interpretazione è vera, la “lettera” è la Open Letter di Silber, e tutte le affermazioni un po’ piccate che seguono sono rivolte a lui, e per estensione al mondo del Folk Music Revival e della sinistra. Seconda interpretazione: Dylan se la prende – come accade anche in altre sue canzoni – con una delle donne con cui ha rotto, o sta per rompere, e qui le candidate sono le solite due, Suzie Rotolo e Joan Baez. Terza interpretazione (radicalmente opposta alla prima): Dylan si rivolge a un ipotetico interlocutore square, cioè a un benpensante, un thin man alla Mr Jones (vedi la canzone Ballad of a Thin Man, nello stesso album di Desolation Row), magari scandalizzato dalla vagonata di immagini acide e di personaggi al limite fin qui sciorinati. Sia come sia, Dylan non riconosce all’interlocutore (Silber, Rotolo o Mr Jones) il diritto di chiedergli “come stai?”. Ulteriore nota ironica: l’allusione alla “maniglia della porta”. La preposizione about ha un doppio significato in inglese. Ho scelto di tradurre più o meno quando si è rotta la maniglia, come dire “le disgrazie non vengono mai sole” (già ci avevo dei problemi, e ora vieni anche a sfruculiarmi con la tua lettera). Ma about significa anche circa, a proposito di, quindi potrebbe intendere la tua lettera, che mi parla di quando si è rotta la maniglia. Come dire: “mi scrivi solo per parlarmi di queste cavolate di cui non può fregarmi di meno?”. Da notare che, al contrario della più letterale TSJ – che ho sostanzialmente seguito – le altre due traduzioni si sbilanciano a dare un sesso al mittente della lettera: per la DADG (ma non essere ridicola) è una donna, mentre per la RDG (ma per favore non essere ridicolo) è un uomo.

NOTA: La traduzione dei brani della Lettera e delle dichiarazioni di Silber è di Seba Pezzani ed è tratta dal libro di Mike Marqusee Wicked Messenger. Bob Dylan e gli anni sessanta, Il Saggiatore, 2010, del quale consiglio vivamente la lettura.

5-8. Tutte queste persone che nomini, sì, le conosco, sono piuttosto noiose. Ho dovuto rimettere a posto le loro facce e dargli degli altri nomi.  L’aggettivo originale lame significa letteralmente zoppo o debole. Nel linguaggio politico USA, lame duck (anatra zoppa) è il Presidente negli ultimi mesi del suo secondo mandato, dopo il quale non può essere rieletto. Ma nel linguaggio popolare significa anche noioso o addirittura conformista. Poiché la lettera di Silber non nomina persone viventi, ma solo due miti defunti (Woody Guthrie e James Dean, che neanche il Dylan più iconoclasta avrebbe mai osato definire lame), possiamo supporre che la lettera fosse di una ex (che parla di comuni amici o conoscenti) o del conformista Mr Jones (che magari si richiama a qualche Autorità o Padre Fondatore). In ogni caso, Dylan sente il bisogno di dare nuovi nomi e facce alle persone di cui parla il suo interlocutore, quindi tutti i personaggi nominati nelle strofe precedenti (da Cenerentola alle sirene) non sarebbero altro che trasfigurazioni di persone conosciute. Come scrive un commentatore, “come Fellini in 8 e 1/2, Dylan ha popolato la canzone di doppelgaenger”, di alter ego di persone della sua vita, esagerate grottescamente. Diversa l’interpretazione delle due cover italiane: De André canta questa gente di cui mi vai parlando / è gente come tutti noi / non mi sembra che siano mostri / non mi sembra che siano eroi; De Gregori questa gente di cui mi vai parlando / non ha carattere non ha fisionomia / ho dato a tutti quanti un’altra faccia / e ho usato nomi di fantasia. A quanto pare, i conoscenti di Dylan hanno solo da guadagnarci a essere trasformati in freaks.

9-12. Ora come ora, non riesco a leggere molto bene. Non mandarmi più lettere, no. A meno che tu non me le spedisca dal Vicolo della Desolazione. Brutale congedo: adducendo come scusa difficoltà di lettura (stanchezza?) Dylan invita esplicitamente il suo interlocutore a non disturbarlo più. A meno che (c’è sempre un a meno che) tu non mi scriva dal Vicolo della Desolazione, cioè a meno che tu non raggiunga una consapevolezza superiore, a meno che tu non faccia in prima persona l’esperienza dell’emarginazione: solo allora mi degnerò di ascoltarti. Il senso si inverte completamente nella DADG: non mandarmi ancora tue notizie / nessuno ti risponderà / se insisti a spedirmi le tue lettere / da via della Povertà. Fortunatamente, l’ultima revisione di De Gregori rimette le cose a posto: d’ora in avanti ti prego non insistere (…) sempre che non mi mandi le tue lettere / da via della Povertà. Un insegnamento conclusivo che potremmo trarne: non è importante solo cosa dici, ma anche da dove lo dici. Un messaggio in astratto “giusto” e “corretto”, ma pronunciato dall’alto, da una situazione di privilegio o di estraneità, risulta meno efficace e incisivo di un messaggio rozzo e sbagliato, ma che viene da dove le cose succedono, da dove le persone in carne e ossa lottano e soffrono. Qui Dylan, di certo inconsapevolmente, riecheggia il frammento di Bonhoeffer (probabilmente del 1942) sullo “sguardo dal basso”. “Resta un’esperienza di eccezionale valore l’aver imparato infine a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi, in una parola, dei sofferenti”. Per dirla con Robert Allen Zimmermann in arte Dylan, solo se scritte dal Vicolo della Desolazione le nostre epistole troveranno ascolto e acquisiranno rilevanza.

That’s all, folks!

 


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