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Posted by on sabato, Novembre 16, 2019 in Mentre Vivo |

Fine lavoro mai

Il primo museo che abbiamo visitato durante la nostra breve vacanza napoletana (agosto 2019) è stato il Museo Archeologico (MANN), che si poteva raggiungere facilmente a piedi, ed inoltre in certe domeniche è a ingresso gratuito. Nel piano sotterraneo c’è un’ampia sezione egizia, la più antica d’Europa (il nucleo originario venne raccolto a fine Settecento dal cardinale Stefano Borgia – quelli di Lucrezia e del duca Valentino e aperto al pubblico nel 1821).

Ho visitato varie collegizioni di antichità egizie, da Torino al Louvre al MET: solo qui a Napoli, però, ho notato per la prima volta i cosiddetti uscebti. Cosa sono?

Uscebti – o ushabti – significa “colui che risponde”. Come da foto, hanno l’aspetto di modellini – in legno o altri materiali – che rappresentano persone. Possono ricordare (a parte la tipica “posa egizia”) le statuette del presepe, o le action figures che riproduconmo personaggi dei cartoni o dei fumetti.

Ma il loro uso era particolare, e l’ho trovato assai inquietante. Stavano nelle tombe e avevano l’immagine non del defunto,  ma dei suoi servitori. Dovevano essre pronti a “rispondere” (donde il nome), nell’aldilà, alla chiamata al lavoro. Nel caso il defunto venisse chiamato a svolgere lavori gravosi (coltivare i campi, irrigare, trasportare sabbia) i suoi uscebti ne facevano le veci: averne tanti era una garanzia, e presumibilmente anche uno status symbol. Spesso nelle tombe, vicino alle statuette, si incidevano testi come questo, tratto dal Libro dei Morti:

”O questo ushabti di (nome del defunto), se io sono chiamato e messo in nota per fare i lavori che si compiono abitualmente nell’oltretomba te ne sarà affidato l’incarico.
Sostituisciti me in ogni momento per coltivare i campi, per irrigare le rive, per trasportare sabbia ad oriente e ad occidente.
Eccomi, dirai”.
O tu ushabti di (nome del defunto) ascoltami!
Se io sono chiamato o condannato ad eseguire un qualsiasi lavoro che si impone alle anime nell’aldilà, sappi o ushabti, che è su di te che incomberà questo onere e che dovrai farvi fronte con i tuoi strumenti.
In ogni momento tu sarai chiamato al mio posto dai sorveglianti dell’oltretomba per seminare i campi o per irrigarli, o per trasportare sabbia dall’oriente all’occidente.
”Eccomi sono ai tuoi ordini” questo è ciò che devi rispondere.

Così l’illustre defunto poteva affrontare la prova della psicostasia (la pesatura dell’anima, o del cuore) e, se la superava, accedere ad un’eternità di delizie nei Campi Aaru, lasciando gli uscebti a lavorare e a rispondere alla chiamata di Osiride.

Bisogna ammettere, una concezione della morte e dell’aldià spaventosamente classista, agli antipodi dell’idea (che troviamo nell’Ecclesiaste o in Totò) della morte come grande “livella” che accomuna nella stessa sorte il principe e il povero, il saggio e lo stolto. Come oggi (come ha detto Mark Fisher) è più facile pensare la fine del mondo che la fine del capitalismo, anche gli Egizi erano incapaci di immaginare un aldilà privo di corvées e di sorveglianti.

Mi viene in mente la poesia di Baudelaire Le squelette laboureur. In essa, il Poeta trova su una bancarella del Lungosenna un vecchio trattato d’anatomia, allietato da illustrazioni che rappresentano scheletri adibiti ai lavori agricoli. Rivolgendosi agli scheletri, chiede angosciato Volete forse mostrarci che persino nella fossa il riposo promesso non è sicuro? Che il Nulla ci tradisce e la Morte ci mente? E che ci toccherà, in qualche paese sconosciuto, scorticare per sempre la terra e spingere la vanga col piede nudo e sanguinante? (traduzione libera).

Citazione meno seria: nel film Beetlejuice, i suicidi sono condannati a fare gli impiegati statali per l’eternità.

Che dire? Certo, gli Egizi avevano risolto, a loro modo, il problema dell’età pensionabile …


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