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Posted by on domenica, Maggio 6, 2018 in Streghe |

Giovannino e suor Virginia

Questa poesia, tratta dai Primi poemetti di Giovanni Pascoli, si chiama Suor Virginia. Il pensiero non può che andare alla manzoniana Monaca di Monza (suor Virginia de Leyva), che non era certo un esempio edificante. Ci si aspetta un poemetto piccante. Niente di tutto questo. La storia è ambientata a Sogliano al Rubicone (provincia di Forlì), nello stesso collegio di suore dove da piccole avevano studiato le sorelle del Poeta, Maria e Ida.

Il compito di suor Virginia nel collegio – un po’ come quello degli staffisti ai campi cadetti di Agape – era quello di controllare, di notte, che tutte le educande fossero nelle rispettive camere. A un certo punto, tornata a letto, sente bussare alla porta Tum tum tum (classica onomatopea pascoliana). Chi è che bussa?

Tornò, comprese. Avea bussato il Santo. Quindi, Virginia comprende che a bussare non è stata un’educanda che aveva mal di pancia, ma il Santo. Quale Santo? La nota a piè di pagina ci spiega che trattasi di san Pasquale Bailon, ovvero lo spagnolo Pascual Bailòn Yubero, ardente difensore della dottrina cattolica della transustanziazione, feroce polemista contro gli ugonotti, e a tempo perso inventore dello zabaione. (Che ci faceva in Romagna? Vallo a sapere …). La sua festa è il 17 maggio ed è onorato come “protettore delle donne” (nel senso di patrono, non di magnaccia). Pascoli non poteva prevedere che nel 1976 sarebbe stato realizzato un filmetto con Lando Buzzanca dal titolo San Pasquale Bailonne protettore delle donne.

Sentendo bussare san Pasquale, Virginia si rende conto che sta per morire (cose che capitano), e prende il rosario. Ma la bella serata non finisce qui. Improvvisamente, senza neanche bussare, ma probabilmente entrando attraverso il muro come fantasmi, chi arriva? E vennero le morte undicimila / vergini con le lampade fornite / e l’olio odoroso camminando in fila. Le “morte undicimila” sono le famose Undicimila Vergini, martirizzate a Colonia, secondo la leggenda, insieme a Orsola (figlia di un sovrano bretone), dal famigerato Attila re degli Unni. Il numero esagerato deriva da un errore di trascrizione: secondo alcuni la sigla M. (martiri) è stata presa per mila (e quindi le Vergini erano undici). Mica facile radunare insieme undici vergini (figuriamoci undicimila): forse al posto del solito Scapoli – Ammogliati, qualcuno aveva organizzato una partitina Vergini – Vedove.

Torniamo al poemetto: le Undicimila, guidate da Sant’Orsola, passano in fila, una per una, davanti a Virginia, mostrando ciascuna su le bianche stole / l’orma di sangue della sua tortura. Un rapido calcolo ci mostra che, se anche ne fosse passata una al secondo, ci avrebbero messo 11.000 secondi, cioè più o meno 3 ore e 3 minuti: interminabile! Dopo lo stillicidio splatter, Orsola picchia per terra con un bastone a forma di giglio, e solo a questo punto termina l’agonia di Virginia, che muore sentendo quei colpettini al grande uscio del cielo. Dalla camerata, una delle educande, forse svegliata da tutti questi colpi, si alza spaventata, anche perché vede un uomo in corridoio (che poi è il solito san Pasquale, rimasto a godersi lo spettacolo), e bussa alla porta di suor Virginia, invano: Ella non venne più.

Insomma, quando si sente bussare alla porta c’è sempre il rischio di incontri macabri.

Termino su una nota più leggera. Quattro anni fa, verso le sette di sera di un bel giorno di primavera, eravamo tutti e tre in casa e, sentendo bussare, mio marito andò alla porta. Al suo Chi è? una voce cavernosa rispose SONO LA MORTE (almeno così gli parve). Terrorizzato ma fatalista, mio marito aprì la porta temendo di trovarsi davanti il Tristo Mietitore in persona. Si trattava di un’anziana vicina del terzo piano, la signora Forte (da cui l’equivoco acustico) che ci comunicava di aver trovato sul suo balcone un nostro calzino, caduto dallo stendino della biancheria. Meno male che non si era portata dietro le Undicimila, il salotto di casa nostra non è abbastanza capiente.


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