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Posted by on domenica, Gennaio 21, 2018 in Racconti |

Lettera di un amministratore delegato

Cara Giorgia, non ti scrivo in veste di amministratore delegato, né di vecchio amico di famiglia, ma in veste di amante. Platonicissimo amante, seguace di Pascal e della raison du coeur. Non ce lo siamo mai detto quest’amore, ce lo siamo scambiato con gli sguardi. Il primo è stato il tuo, ed era implorante. Sei venuta da me in un grigio pomeriggio di novembre a dirmi che tuo marito, quello con cui giocavo a tennis tutti i sabati, stava definitivamente affossando l’azienda di famiglia con scelte sbagliate e decisioni scriteriate del suo cervello bacato. Proprio così. Tu che sei una persona raffinata per natura, senza affettazione, hai usato quest’espressione, che in bocca a un’altra donna sarebbe sembrata volgare. E mentre parlavi, io immaginavo le cose alla lettera: il cervello di Francesco ripieno di vermi schifosi, bacato e bucato, visto che non lo utilizzava. Io ho sollevato il telefono e ho parlato con tuo padre, che mi ha dato la conferma di quello che succedeva con aperta disperazione. Poi ho fatto un’altra telefonata, per me molto rischiosa. Ho parlato col capo del mio studio, e ho chiesto un anno di aspettativa. Temevo il licenziamento o una porta in faccia, invece ha capito e me l’ha concesso. Poi è stato un anno di registri contabili, di riunioni frenetiche fino a mezzanotte. Ci sono stati anche un paio di viaggi all’estero, per tentare una mediazione con chi, alla fine e per fortuna, ci ha dato credito. A chi pensa che tutto sia stato dovuto alla mia bravura vorrei dire che non è così. Io, che sono profondamente credente, ma non ho il tempo materiale di andare in chiesa, confesso che ho pregato e sperato che andasse tutto bene per Francesco, per i tuoi figli, per tuo padre, per i vostri dipendenti, ma soprattutto per te, che stai al centro del mio cuore. Per quegli sguardi fiduciosi che ci lanciavamo quando tornavi dal tuo lavoro part-time in quella piccola casa editrice, e di cui chiacchierano molto le signore della nostra cerchia di amicizie. Per quelle pause del tè delle cinque, mentre lavoravo nello studio di casa tua, e per i biscotti che dividevamo insieme, parlando amabilmente di cultura e di arte. Eri una boccata di aria fresca, Giorgia. Facevi risplendere la parte migliore di me. E quelle mezz’ore divise ad amarci con gli occhi, interrotte a volte dai tuoi figli che volevano un aiuto nei compiti, sono la cosa più preziosa di questo faticosissimo anno di lavoro. Lavoro che, per fortuna, ha risollevato le sorte della tua azienda e ha riscaldato, con la tua presenza, il mio cuore di filosofo mancato. Ti amo, Giorgia, e continuerò ad amrti per il resto dei miei giorni. Ma non farò nessun gesto, non voglio rovinare questo amore purissimo, in questa crisi morale da basso impero che ci travolge tutti.

Sempre tuo nel cuore,

Raffaele


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