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Posted by on sabato, Ottobre 13, 2018 in Racconti, Streghe |

Prima di me

Ricevo, e volentieri pubblico, un racconto della mia amica (e sorella di chiesa) Alessandra Gatti, già autrice dei racconti Sugar Devil (qui pubblicato il 19 e 20 giugno 2016), Il testamento di Tara (15 novembre 2016), La tessitrice di soldatini (27 gennaio 2018), Tre doni d’amore (31 maggio 2018). Il racconto è lungo, ma vi assicuro che ne vale la pena. Buona lettura!

PRIMA DI ME

  1. Abigail Mirren – il prologo

Hereford, Regno Unito, ottobre 1868

Non sento più le gambe. Quando ho messo il piede sul predellino per scendere dal treno, ho sentito il ginocchio destro pesante e il piede instabile, poi ho piegato il ginocchio sinistro e cercato di appoggiare il tallone sinistro sul prato e sono capitombolata nell’erba fresca. Nessun dolore, il mio corpo è leggero, solo le gambe sono immobili. La mia mano è bianca, piccola e lucida, come quella di una ragazzina e una treccia color grano spento sfiora il terreno con me. Cerco di tirare su il busto e mi siedo con le gambe dritte e inerti davanti a me. Nessun dolore nelle mie gambe di pezza, solo il fresco umido dell’erba, lo scroscio del ruscello, la gonna macchiata dalla caduta e l’aria fresca. E’ stata l’ultima volta che ho visto il ruscello.

“E’ stato solo un sogno, Abigail” mormora la voce della mamma, premendomi la pezzuola umida sulla fronte, “E’ il terzo giorno che ha la febbre, se non le passa abbiamo ben poche speranze”, la sento dire a papà Jon. Papà Jon, il reverendo Jonathan Mirren, il secondo marito della mia mamma, l’unico papà che io ricordi. Quello che si è preso cura della giovane vedova Bloom e di me, una bimba già consunta da un male ancora senza nome e ci ha accolte nella sua casa e nella sua chiesa come due uccellini smarriti, quello a cui devo la spensieratezza di questi sedici anni vissuti tra il cottage di pietra e lo stagno, tra i suoi sermoni e la panna con le fragole, tra le risa degli altri bambini e la quiete del mio albero preferito, dove ho trascorso intere estati a ricamare appoggiata al suo alto fusto.

Questa è la mia ultima sera nella casa di mamma Bloom e papà Jon, che non si sono mai arresi. Che si sono aperti alla vita, in barba ai maldicenti e hanno rischiato a mettere al mondo un’altra figlia come me. E che la vita ha premiato con la biondissima e paffuta Jaelle, la mia bambola dagli occhi di cielo, il dispetto alla morte che la vita ha voluto giocare, che vivrà per me e attraverso cui vivrò sotto il sole della Terra. Questa è la mia ultima sera e non mi verrà dato sapere che quel turbine di energia sarà chiamata al cielo poco dopo di me, destino, dalla sua sete di conoscenza, che la spingerà su un ramo troppo alto proprio dell’albero che ha sostenuto la mia breve esistenza. Non ora, lo saprò quando sarò pronta, quando sarò grande e la vita mi avrà già insegnato che nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.

È passata l’ultima notte, ora i miei occhi sono chiusi e le mie braccia conserte sul petto. Il mio corpo indossa la gonna di velluto bordeaux con la cuffietta in tinta e il busto stringe i miei muscoli consumati ed un cuore che non batte più. Sono ormai leggerissima, cammino accanto a tutti loro, sollevandomi di tanto in tanto da terra. Mamma non piange, forse neanche capisce e suoi occhi neri come carboni continuano a fissare il vuoto. Papà, rigando di lacrime i suoi occhiali dorati, chiede aiuto al suo Dio, lo supplica di non abbandonarlo e di dargli una ragione per continuare a testimoniare la sua parola. Jaelle canta “Amazing Grace” perché lei sa che sto solo riposando e  presto mi rivedrà. A te lascio la mia vita, saggia Jaelle e ti confesso di essere stata tremendamente felice in questo piccolo spazio di tempo di questo minuscolo mondo. Sei stata sorella, ma anche figlia, una bimba che non ha partorito la mia pancia, ma la mia forza vitale. Ti amerò sempre e ti ritroverò, promesso! Mamma non cercare di capire, prendilo come un buffo mistero, come quello che dai tuoi capelli corvini siano nate le mie trecce color grano e i boccoli quasi bianchi di Jaelle. Niente di più. Papà credimi, la vita ci farà incontrare ancora e, fidati, non mi riconoscerai e sarà meglio così. Sono felice, tremendamente felice.

 

 

  1. Wanda Enriquez – la storia

Cleveland (Ohio, USA), maggio 1967

Sento di nuovo le gambe. Piego il ginocchio sinistro e metto il piede sul predellino e i muscoli riprendono a contrarsi. Con un balzo, appoggio il tallone destro sul pavimento del treno, giusto un secondo prima che le porte si chiudano e si riparta.

“Al tre, quando sarà risalita sul treno. si risveglierà perfettamente cosciente e riposata”, mi accarezza la voce dell’ipnotista e, dolcemente, ritorno allo stato di coscienza. Poi mi risveglio di nuovo, questa volta di botto, il sogno nel sogno, come lo chiamano gli psicanalisti. Ritrovo la mia mano, magra e nodosa, ma liscia come seta, le mie braccia e il mio viso perfettamente glabri e sfioro con le dita le ciglia finte, che domani l’infermiera mi dovrà togliere prima dell’intervento. Hugo si era premurato di informare tutto il personale di chiamarmi “signora Wanda”, a prescindere dai dati sulla cartella perché mi ero conquistata quel nome con le unghie e con i denti, così come che mi sottoponessi a questa bizzarra seduta ipnotica. Domani Hugo accarezzerà per l’ultima volta il mio cuore, poi compirà l’azione che chiuderà il nostro cerchio con l’umanità.

“Recluta Heinrich Wander a rapporto!”. Dio, fa’ che sia un sogno, ma non che sia l’ultimo di questa ultima notte della mia vita. Fai che quel viso allo specchio non sia l’ultima immagine dei miei occhi, che il mio ultimo ricordo sia la mia adorata Perla, il mio amato Hugo o anche quell’improbabile ragazzina inglese che l’ipnotista ha tirato fuori dal cilindro del mio subconscio.

Lo specchio, impietoso, sembrò non udire i miei lamenti e mi restituì l’immagine di un ventenne efebico, lungo e magro, con i capelli color grano. La divisa grigio fumo, che mi calzava perfettamente sulla spalla destra, mi cadeva sul braccio sinistro volutamente inerte, mentre la mano destra tentava di coprire il “sole malato” cucito appena sotto il bicipite del braccio che rifiutava di muoversi. “Recluta Wander!” tuonò di nuovo la voce e in pochi secondi dovetti nascondere Perla tra la rete e il materasso, indossare il berretto e lasciare in bella mostra quell’orrendo simbolo sulla mia spalla sinistra. Quella sarebbe stata la notte della fuga da Monaco, io e Perla avremmo viaggiato sotto copertura fino a Porto e poi preso una nave per Buenos Aires. Ce l’avremmo fatta, solo io e lei. Ora dovevo andare, giurare fedeltà a Satana ancora una volta, una volta e mai più.

Perla era ebrea. Perla mi amava, anch’io l’amavo, ma non allo stesso modo. Perla aveva accettato il fatto che io non fossi un vero uomo, non come lo intendeva lei. Io amavo – e invidiavo – i suoi capelli corvini e compatti, le sue ciglia folte, i carboni ardenti dei suoi occhi, la sua pelle color bronzo e le sue lunghe gambe. Non potevo sopportare che i commilitoni approfittassero di lei, perdendosi nelle sue carni per poi definire il suo essere “discendente dei topi”. Lei ha sempre saputo che io non avrei potuto amarla “in quel modo”. Aveva capito fin da subito che ero una fragile ragazza sbagliata, perché nata nel corpo di un giovane soldato ariano. Un giovane, soldato e ariano. Tutto sbagliato. Ma aveva accettato la sincera amicizia che le avevo offerto e, mentre i commilitoni mi immaginavano a nutrirmi del suo corpo per poi sputare sulla sua anima, lei mi truccava e mi vestiva con i suoi abiti, complimentandosi poi per il risultato con il suo buffo accento polacco. Era l’unica vera amica che avevo, l’unica che potessi desiderare.

Quel giorno non era il mio turno per i suoi servizi e la sua presenza in camera mia avrebbe destato sospetti. L’incavo che la rete, che aveva ormai perso elasticità, creava nel centro del materasso era un ottimo nascondiglio. Andai a rapporto, tornai e la ritrovai sotto il materasso come l’avevo lasciata. Però si era addormentata. Per sempre. Con il collo spezzato. Fuggii quella notte stessa, con lei e la morte nel cuore.

L’ultima notte della mia vita avrei però voluto sognarla viva, mentre ridevamo, truccate con il suo rossetto vermiglio e la polvere per le guance e le raccontavo che un giorno sarei stata una donna vera, avremmo trovato due meravigliosi mariti argentini e avremmo dimenticato il freddo del cuore e l’inverno della ragione che aveva avvolto l’Europa.

A Buenos Aires ottenni un inquietante passaporto che riportava il nome di Mr. Henry Wonder, assurda trascrizione anglosassone del mio nome di nascita, nato a Hereford, Regno Unito, nel 1925 e la foto di un’efebica creatura ventenne – ne avevo in realtà quasi 25 – abbastanza credibile da presentarsi come Miss Wanda Enriquez quando i documenti non erano richiesti. E neanche ciò di cui la natura mi aveva indebitamente dotato non costituì quasi mai un problema per i pochi uomini a cui mi avvicinai senza eccessivo calore umano, finché nella mia vita fu recapitato un secondo immenso dono: Hugo.

Il dottor Hugo Romero Blanco era un medico visionario, nato in una famiglia poverissima e voracemente appassionato di scienza, che aveva intrapreso gli studi di medicina, specializzandosi in cardiochirurgia contando solo sulle proprie forze, quando il “mal di cuore”, qualunque cosa significasse, era ancora presagio di morte e incurabilità. Aveva commesso delle impudenze, mai imprudenze, tuttavia sufficienti a renderlo inviso alla comunità medica argentina, ancora agli albori per le sue teorie pionieristiche. Aveva invece, proprio in virtù della sua audacia, attirato l’attenzione di un notorio centro cardiologico statunitense, che aveva iniziato ad avvalersi della sua collaborazione agli inizi degli anni ’60.

Non so come, ma s’innamorò follemente di me, lui che, pur non brillando di avvenenza, aveva conquistato donne ben più titolate di questo appellativo – solo ai miei occhi, mi rassicurava lui – grazie al fascino indiscutibile di una mente eccelsa.  Io lo amavo con tutta me stessa, ma neanche questa benedizione della vita – ormai avevo passato i quaranta – riusciva a togliermi il germe di morte che avevo involontariamente seminato in gioventù. E fu proprio quel seme maledetto a suggerirmi come avrei potuto restituire il maltolto all’umanità.

Hugo mi parlava con grande eccitazione del fatto che un giorno sarebbe stato possibile trapiantare il cuore di una persona, purché fosse appena deceduta, su un’altra persona il cui cuore funzionava male. Gli Stati Uniti erano in corsa contro il tempo con il Sudafrica per la cardiochirurgia, esattamente come lo erano con la Russia per la conquista dello spazio. Ma ci voleva un candidato donatore. Sano, morto da pochissimo senza danni cardiaci e compatibile con la candidata ricevente, che l’equipe di Cleveland aveva appena individuato.

Il mio cuore in una donna vera, pensavo e il pensiero si faceva sempre più persistente. Tentai di convincere me stessa che era assurdo. Poi che era assurdo il contrario. E, ultimo, ma non ultimo, avrei dovuto convincere Hugo. Non fu un’impresa semplice, ma alla fine fece sua l’idea che questa folle azione dell’uomo che ancora una volta stava tentando di sostituirsi a Dio fosse l’unica che mi avrebbe permesso di pagare il mio debito con l’umanità. L’equipe di Cleveland non si lasciò scappare l’occasione: un medico avrebbe dichiarato la mia morte accidentale e il mio cuore sarebbe stato trapiantato nel petto della sconosciuta, una giovane donna sbirciata inopinatamente da dietro una tenda, le occhiaie bluastre che celavano due occhi di cielo e la cuffietta da cui spuntavano ciuffi bianchissimi e sottili, come quelli di una bambina, a cui, anche se per un tempo brevissimo, avrei donato la vita. La vita che avevo sottratto a Perla. E a milioni di donne come lei, figlie che non avevo mai partorito, ma di cui finalmente sarei stata madre.

Sappi che ti ho amato, Hugo e ti amerò oltre la mia vita. Guardo la cartella clinica con il nome Wonder, H. Forse non è un caso e domani compirai il miracolo. Come mi dici tu, guardandomi da dietro i tuoi occhiali dorati: “I love you, my wonder girl”. Yo también te quiero, mio milagro.

  1. Alberta Tremaine – l’epilogo

Milano, ottobre 2018

“Al tre, salirà l’ultimo gradino e si risveglierà perfettamente cosciente e riposata”. Col cazzo. Ottanta euro per una seduta in cui il cosiddetto ipnotista regressivo ha voluto farmi credere di essere la reincarnazione di un’adolescente inglese moribonda e poi di una psicopatica argentina di mezz’età. Un’altra delle bizzarre idee di Leo, dopo che mi ha sorpresa una volta di troppo a svegliarmi di soprassalto per un sogno turbolento. Ma anche no, potevo andare a mangiare il sushi con Leo e Sharon per la stessa cifra e sicuramente ci divertivamo molto di più. Pago e ringrazio, tenendo già il pollice sul pulsante automatico dell’ombrello in vista della strada da attraversare sotto la pioggia battente.

Sharon fa tintinnare le chiavi dell’auto e mi strappa un sorriso: ha passato anche l’esame della patente! Sharon Tremaine, incredibile creatura! Nei tuoi diciannove anni e nel tuo metro e ventotto per ventisei chili hai scalato vette insospettabili, a cui altre persone, nate con molte più frecce al loro arco, possono solo sognare di avvicinarsi in una vita intera. Entro di corsa sul sedile posteriore dal lato del guidatore e la guardo infilare la chiave nel cruscotto con la sua mano bianchissima e minuscola, sfiorando poi gli altri comandi al volante con la delicatezza di un pianista sui tasti preziosi di un antico strumento. Il sedile rialzato la fa percepire come un’adolescente, come del resto tutto di lei trae sorprendentemente in inganno: l’aspetto minutissimo, la vocina flebile e acuta, i capelli sottili e i tratti del viso da bambola di porcellana. E il suo dono è proprio quello di stupire del fatto che, sotto quelle apparenze, si celi una donna forte e straordinariamente intelligente.

Ripenso all’incontro con lei e Leo, nove anni prima, in un giorno altrettanto piovoso, nei trafficati corridoi dell’aeroporto di Amsterdam. Ero seduta in uno dei tanti caffè, non ricordo neanche quale e lei mi rovesciò sulla borsa un cono gelato troppo grande per le sue manine, e mi colpì il suo “I apologize, madam”, fin troppo sobrio e forbito per la bimba di forse cinque anni che appariva, nonostante ne avesse appena compiuti il doppio. Leonard Tremaine, geologo canadese e padre single per una vedovanza precoce, stava raggiungendo Paestum per uno scavo e sarebbe transitato da Milano per conto della ditta che lo aveva ingaggiato. Rise quando mi presentai perché mi chiamavo Alberta, come lo Stato in cui lui era cresciuto e il mio cognome di nascita, Gatti, era esilarante per un anglofono: spergiurò che nel suo paese nessuno si sarebbe mai chiamato Cats e la cosa, non so perché, ma non mi stupì. Da quel giorno non ci lasciammo più e neanche il fatto che mi portò in dote il cognome Tremaine, matrigna e una figlia non nata da me, mi stupì.

L’auto è riscaldata e Leo mi accoglie in un abbraccio e il suo “Weilà bela toosa” nel suo inquietante accento milanese condito in salsa d’acero. Dal sedile accanto al guidatore fa capolino Mila, la bella Milagros, con la sua lunga chioma nera e compatta, a volte talmente folta che deve scostarsela dal viso per mostrare i suoi profondi occhi neri. Non avrebbe potuto essere più diversa da Sharon, con le sue gambe lunghe e la sua pelle di bronzo, la voce calda dall’accento latino e i colori intensi dei suoi abiti. Ma sono due piccoli geni dei numeri, che si sono scoperti a vicenda sui banchi dell’università un anno prima e da allora si amano come poche altre coppie che io abbia mai conosciuto. Eppure oggi c’è qualcosa che non avevo mai notato prima. I boccoli leggeri e biondissimi di Sharon e la sua sorprendente vitalità, le iridi color carbone di Mila e l’intensità malinconica del suo sguardo mi sono familiari, troppo familiari per essere mere coincidenze.

Leo coglie il mio turbamento e mi volta delicatamente il viso per baciarmi, passando la mano tra i miei capelli dritti e forti, un tempo color grano e ora striati di grigio. Per un attimo, i miei occhi incrociano i suoi dietro gli occhiali dorati che gli scivolano dal naso. E’ tutto assurdo, penso, mentre sento le sue labbra sfiorare le mie e scorgo la mano bruna, lunga e affusolata di Mila con le unghie smaltate di fucsia posarsi delicatamente su quella piccola e bianca di Sharon con le minuscole unghie azzurro perlato.

“Vamos, mio amor” echeggia la voce di Mila. Sharon mette in moto e, tutto d’un tratto, comprendo che, anche se tutto avesse un senso, niente avrebbe motivo di legarci al passato.

Io e Leo, a Dio piacendo, avremo ancora molti anni davanti a noi. Sharon è ormai una donna, si sta facendo largo nella strada della vita e un giorno diventerà madre anche lei, ci scommetto. Magari di figli con le gambe lunghe e la pelle color bronzo, che non saranno nati dalla sua pancia, come lei non è nata dalla mia, ma che la chiameranno mamma Sharon in tre lingue e che lei farà filare ancor più severamente di mamma Mila.

Il cerchio, ovunque si sia aperto, può considerarsi chiuso. Ora inizia la nostra vera vita, senza debiti, né crediti. Da oggi, si paga in contanti.


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