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Posted by on sabato, Aprile 7, 2018 in New York, Wurstel | 1 comment

I saluti alla sorella

Risale al 1953 il film Un turco napoletano, interpretato da Totò e tratto dalla farsa omonima (fine Ottocento) di Eduardo Scarpetta. All’inizio del film, Felice Sciosciammocca (il personaggio interpretato da Totò) si trova in carcere. Ivi racconta ai compagni di cella di essere uno sciupafemmine e, per rinforzare tale reputazione, apostrofa il secondino che gli ha portato il rancio con la frase Salutame a sòreta. Letteralmente significa Salutami tua sorella, ma qui la cortesia non c’entra nulla, anzi. Il significato recondito è assai offensivo, perché sottintende: Conosco fin troppo bene (anche biblicamente) tua sorella, per questo le mando i miei saluti. In un ordine simbolico (e reale) fortemente patriarcale, in cui l’onore della famiglia poggia sulla virtù delle donne di casa, di cui spetta ai maschi farsi garanti – anche con la violenza – la frase assume una valenza aggressiva, che va dal rude invito a parlar d’altro, alla vera e propria dichiarazione di guerra.

Da appassionata dei film di Totò e della comicità dialettale in genere, ho sempre apprezzato questa frase, pur conoscendo le sue connotazioni maschiliste. Mi piace il suo tono reciso e liquidatorio, ideale per mettere a tacere un seccatore, come se ne incontrano tanti, troppi, in giro. Per questo adoro adoperarla specialmente all’estero, con persone strane che s’incontrano occasionalmente per la strada e vogliono attaccarti un bottone, e che molto probabilmente non capiscono l’italiano. Così è accaduto anche a New York, l’estate scorsa. Nel caldo di luglio io e mio marito ci eravamo rifugiati sotto la sopraelevata della metropolitana 7, su due seggiolini pubblici (altra cosa lodevole della città) ed eravamo infervorati in una partita di Pokémon Go. Si avvicina un tizio, un po’ più anziano di noi, dall’aria di voler attaccare briga (per fortuna, non di quelli pericolosi). Si lancia, infatti, in un discorso sconclusionato di cui, col mio inglese basico di allora, capisco solo che ce l’ha con noi perché siamo dei cretini che giocano a un giochino cretino (probabilmente, voleva che gli lascissimo un seggiolino e l’aveva presa un po’ alla larga). Mentre mio marito, concentrato su una cattura un po’ difficile, non reagisce, io guardo il tizio negli occhi e gli sillabo, con tono deciso – e accompagnadolo col gesto che faceva anche Totò nel film – SALUTAME A SORETA.  Pieno successo: più impressionato dal tono che dal contenuto, il tizio si allontana con la coda tra le gambe.

A dimostrazione del fatto che quando ci vuole ci vuole: talvolta non fa male dire anche cose politicamente scorrette, purché fuori contesto. E purché l’interlocutore non ne capisca il senso.

1 Comment

  1. Pensa, Marianna, se quell’ individuo fosse stato un Italoamericano di origini napoletane…
    Comunque, ho sentito quest’espressione anche abbreviata in “a sòreta”, penso con li stesso significato…☺


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