Pages Menu
RssFacebook
Categories Menu

Posted by on venerdì, Novembre 11, 2016 in Arti Marziali |

Severi samurai o orfani di Goku? (prima parte)

Orazio G.Rossi è un mio vecchio amico, praticante di arti marziali. Gli è capitato per caso sotto l’occhio il post della settimana scorsa “Ribellarsi è giusto”, e ha deciso di sottopormi queste sue riflessioni, che prendono le mosse anch’esse dal vecchio libro di Riccardo Pedrini.  L’articolo di Rossi è già stato pubblicato sul blog del Dojo Kasumi nel 2013. Mi sono presa la libertà, col consenso dell’autore, di dividerlo in tre parti.

Non sono frequenti le riflessioni sulle Arti marziali, ma a volte compaiono, seppure in forma frammentaria.
Occhieggiano tra un articolo e l’altro delle riviste specializzate, si trovano in alcune monografie di vecchi Maestri, o in traduzioni più o meno fedeli dell’inglese americano, spuntano sul web appesantite da miriadi di polemiche e sbeffeggiamenti reciproci, spesso dando vita a vere e proprie guerre di religione. Qual è l’Arte Marziale (AM) più antica? Quale di esse ha i Maestri più accreditati? Sono diventate del tutto inutili, vista la nascita dei sistemi di autodifesa? E tra questi, qual è quello più efficace?
A proposito di questi ultimi occorre dire che sono nati per lo più in ambito militare, studiati per le guerriglie o testati dalle forze di polizia per reprimere rivolte di piazza. La maggior parte dei praticanti non operano in tali settori, pur essendoci una consistente minoranza di esperti che lavora con le forze dell’ordine.
Devo pertanto premettere che nella riflessione che esporrò, il praticante medio di AM o degli Sport da combattimento (SdC) non pratica per vivere ma lo fa per tutti i vantaggi che tale esercizio comporta. Molte delle considerazioni che esporrò non sono attinenti alla realtà di coloro che, vuoi per meriti personali agonistici, vuoi per tradizione familiare fanno delle AM, degli SdC o dei sistemi di difesa la professione principe da cui traggono di che vivere. Il mio ragionamento, poi, potrebbe valere per chi amatorialmente, pratica una qualsiasi disciplina sportiva con regolarità (diventando pure istruttore, in alcuni casi) e pur non essendo in senso proprio un professionista, grazie ad allenamenti costanti e mirati giornalieri o quasi, riesce nel tempo ad acquisire discrete capacità di prestazione e a fare delle riflessioni sulla disciplina e sulla pratica. Il dilettante consapevole, dunque, ha tutti gli strumenti per dire la sua. In tale riflessione mi piacerebbe avere dei pareri di quanti si sentono di riflettere con un tale orizzonte.

Nel 1998 Riccardo Pedrini ha scritto una puntuale analisi del mondo marziale nel volume Ribellarsi è giusto (Castelvecchi, Roma), mettendo in luce sia i percorsi storici, sia l’apparato ideologico che li sottende, sia gli abusi “mistici”. Partirò da alcuni suoi intelligenti spunti per riflettere non tanto sulle ideologie (lo ha fatto già lui, esaurientemente), quanto sui risvolti psicologici e relazionali che animano la vita di parecchie palestre. Premetto che tali analisi deriva sia dalla frequenza di diverse dojo (anche come ospite temporaneo), sia dai racconti e dal confronto con molti altri praticanti, sia dalle polemiche sul web.
Le pecche maggiori di una gran parte di tali luoghi fisici o informatici nascono dal fanatismo di alcuni istruttori che spesso genera dinamiche degne del più bieco nonnismo, unitamente a deliri misticheggianti o di onnipotenza combattiva. Tutti elementi che possono fare, a seconda delle combinazioni di un fato capriccioso o imprevedibile, la fortuna o la disgrazia di una palestra, di una scuola o di un Maestro.
In queste mie note di riflessione non mi addentrerò nella polemica sui “cattivi maestri”. E’ un lavoro del tutto inutile, chi vende fuffa prima o poi viene scoperto e inoltre i fenomeni da baraccone ci sono in tutti i settori, bisogna farsene semplicemente una ragione.

L’ANALISI DI PEDRINI
Pedrini sottolinea la genesi di tutti i modi di combattere in modo sinteticamente efficace:
“Niente di ossessivo o di letterario. Si lotta per la vittoria, si lotta per la sopravvivenza, si lotta per la dignità” (op. cit., pag. 31).
Sostanzialmente, afferma, in tutti i continenti, in passato, lo scopo delle discipline marziali non era quello di mostrare forme esteticamente attraenti, ma di potere, attraverso queste forme a vuoto, allenare i soldati a combattere per la sopravvivenza. Le tradizioni orientali e occidentali contenevano e contengono spesso elementi in comune e altri invece dissimili. Molte scuole, ad esempio, svolgevano gli allenamenti su terreni più o meno accidentati, o di contro, nel chiuso di ambienti. In molte scuole i praticanti erano a piedi nudi, cosa quanto mai improbabile nell’occidente postmoderno: quante aggressioni si compiono in riva al mare o in piscina?

Oltre alle mutate condizioni ambientali sono oggi profondamente cambiati stili di vita, abitudini alimentari, struttura fisica dei praticanti. Inoltre le pratiche marziali e di combattimento non sono più appannaggio di caste guerriere i cui membri erano tutti di sesso maschile e di forte tempra fisica. Discipline che richiedevano la maturità fisica virile vengono impartite, nelle linee elementari e con un approccio ludico, ai bambini delle scuole primarie. La didattica delle discipline è quindi nettamente cambiata poiché i praticanti sono diversi, anche se i puristi vorrebbero limitare la diffusione di AM e SdC solo a chi ha la possibilità di allenarsi in modo semiprofessionistico o professionistico. Altro discrimine fondamentale, di cui Pedrini parla diffusamente, è l’esistenza stessa dell’arma da fuoco, che ha azzerato ogni possibile abilità fisica del soldato allenato a mani nude o all’arma bianca. Tale sconfitta del mondo feudale nipponico causata dalle “bocche tonanti” è efficacemente esemplificata in una delle ultime scene dei Sette samurai del grande regista giapponese Akira Kurosawa. Uno dei protagonisti cade dopo una strenua battaglia con katana e armi bianche e deve soccombere alla potenza dei fucili.

Negli ultimi 20 anni sono proliferati numerosi sistemi di autodifesa che hanno distillato poche tecniche efficaci di braccia e di gambe per reagire in modo efficace a un’aggressione. La maggior parte di tali sistemi sono nati in ambito militare e vengono effettivamente usati dagli eserciti e dalle polizie di tutto il mondo per fronteggiare spesso combattimenti violentissimi corpo a corpo. Naturalmente il personale addestrato è sottoposto a un notevole surmenage atletico per raggiungere prestazioni di grande efficacia. Bisogna chiedersi, per onestà scientifica, quali possono essere i risultati presso i praticanti dilettanti nel corso di due o tre allenamenti settimanali e soprattutto, come invece molti corsi di tale tipo assicurano, dopo un breve tirocinio di sei mesi o un anno.
Non bisognerebbe riflettere sul fatto che il corpo impiega più tempo per rendere automatiche certe reazioni?
In tale frangente conta infatti, a mio parere, l’elemento del business commerciale: ciascuno afferma perentoriamente che il proprio sistema di autodifesa è il migliore in assoluto, cercando di addurre le prove nei numerosi fatti di cronaca relativi alle aggressioni.
Per non parlare poi delle diatribe AM, SdC, Mixed Martial Arts, sistemi, ecc…. : non basterebbe una mole di volumi pari a quelli dell’Enciclopedia Britannica per illustrare. Alla fine ciascuno resterebbe comunque della propria opinione anche perché nessuno riesce a ricostruire al cento per cento una vera aggressione in palestra e comunque le variabili della medesima sono veramente infinite e imprevedibili.
Non è da sottovalutare, ad esempio, la stazza, l’età e la capacità di reazione della potenziale vittima: la ragazza mingherlina ha sicuramente meno chances del robusto giocatore di basket dall’aria truce (ammesso, e non concesso, che qualcuno abbia voglia di aggredirlo). Il panico può afferrare, nel caso di un agguato violento, anche il settimo dan di una disciplina marziale. L’istruttore di Krav Maga sorpreso nella sua villetta da una banda di ex-mercenari di una delle tante guerre che hanno insanguinato l’Europa potrà avere qualche chance in più all’inizio, ma sarà difficile infine non cadere nelle mani dei suoi violenti antagonisti (i cinque contro uno che combattono uno alla volta e vengono atterrati dall’eroe di turno si vedono solo nei telefilm di Chuck Norris).
Non bisogna essere degli psicologi ferrati o avere le statistiche alla mano di agguati ed aggressioni per arrivare a capire che le variabili in gioco sono parecchie e che al di là di tutta una serie di accorte precauzioni, la realtà è ben lontana dai film di Kung fu o dalle serie poliziesche sui corpi speciali. Infine, il possesso sempre più diffuso di armi da fuoco è quanto fa realmente la differenza.
Nel capitolo “Smontiamo l’invincibilità” Pedrini argutamente sottolinea: “Meglio la dimensione fondamentalmente ludica degli sport da combattimento a contatto pieno che diventare appendici di schemi e videogiochi o adepti di fumosi sistemi cognitivi che magari promettono in sovrappiù chissà quale “emancipazione spirituale”. Questo comunque, è quanto di “marziale” è rimasto e continua ad essere praticato in questa società“ (Pedrini, op. cit, pag.45).
E’ vero, abbiamo parlato dei numerosi ciarlatani. Il fenomeno c’è, bisognerebbe diffondere l’idea, per chi si accosta alle AM, che non sono necessariamente collegate a una via spirituale. Insomma, ci si prende a pugni e non si fa filosofia! Tuttavia bisognerebbe citare anche altri risultati che emergono, in merito sia al fatto tecnico che al fatto psicologico, in primis quelle relative al controllo e all’autocontrollo nel combattimento (o nell’uso di un’arma bianca), su cui normalmente si tace.
L’aspirante praticante dovrebbe anche avere chiaro che la spettacolarizzazione del combattimento in ambito cinematografico non ha nulla a che vedere con la lotta concreta e reale né con la gara sportivizzata ma che è una disciplina a sé stante. Nell’ultima versione di Sherlock Holmes o nei film di cappa e spada degli anni ’50 e ’60 (come in quello più recente del capitano Alatriste, tratto dall’omonimo romanzo di Pérez-Reverte) sono stati impiegati istruttori per rendere la lotta uno spettacolo nello spettacolo comprese tante finte. Il praticante dovrebbe conoscere tutti i distinguo del caso, avrebbe diritto ad avere tutte queste informazioni e diciamo pure quali sono gli incidenti cui può andare incontro. Sarebbe una prova di onestà intellettuale, nonché di moralità e renderebbe la pratica più consapevole e l’attenzione degli allievi sarebbe maggiore.
In tutta questa opera di consapevolizzazione e di discernimento bisogna dire che i manga e i videogiochi non rendono certo un buon servizio. Questo perché qui dobbiamo toccare un altro tasto dolente, una chimera che tocca gli aficionados sia delle palestre che della consolle: il mito dell’invincibilità.
E’ un mito profondamente radicato nella nostra cultura (basti pensare all’Iliade e all’Odissea), e certamente movies e videogiochi contribuiscono a risvegliarlo e a irrobustirlo nell’immaginario collettivo. Certi archetipi servono per superare le paure tipiche dell’età di passaggio dall’infanzia all’adolescenza, sono proiezioni fantastiche di cui la psiche ha bisogno per crescere. Il problema è quando tali fantasie passano supinamente sul piano di realtà o peggio, proseguono oltre la prima adolescenza (nei casi disgraziati, oltre la quarantina). A questo punto il mito dell’invincibilità prende la piega patologica del delirio di onnipotenza con risultati anche pericolosi: i peggiori si identificano nel sergente cattivo di Full Metal Jacket e, se sono istruttori, la vita in palestra diventa impossibile, tanto da far scappare a gambe levate quelli più equilibrati.

L’ETERNA ADOLESCENZA DEGLI ORFANI DI GOKU
Bisognerebbe partire dai dati di fatto per analizzare qual è la buona pratica delle AM e degli SdC. Praticare non basta, è la base naturalmente ma spesso bisognerebbe anche mettersi a pensare se determinati atteggiamenti e posizioni sono proficui oppure no, interrogarsi su certe dinamiche di gruppo. Nelle AM e negli SdC si dovrebbe aver chiaro, come negli sport tradizionali a coppie, individuali o singoli, che tali pratiche non sono altro che una ritualizzazione del conflitto, un’attività fisica più o meno impegnativa (a seconda del tempo profuso) per affrontare ed educare le proprie pulsioni aggressive (o, di contro, per vincere le proprie paure). Il tutto incanalato in un combattimento che, per forza di cose, ha delle regole precise da cui viene informato e delle regole di rispetto dell’avversario dalle quali non si può derogare, pena la mancata incolumità fisica (e aggiungerei anche psicologica) dei contendenti. Le regole di combattimento e di pratica dovrebbero valere per tutti. Queste considerazioni appaiono a prima vista banali e logiche, ma spesso non lo sono affatto. Molti, presi nei loro deliri adolescenziali di onnipotenza e di invincibilità, non accettano regole, o lo fanno solo a parole perché poi, non appena e ne presenta l’occasione, le infrangono causando spesso anche danni fisici ai propri compagni di pratica.
Intendiamoci: questi tipi di problemi non esistono solo in ambito marziale. Ogni buon allenatore di una squadra amatoriale di calcio sa che spesso, dietro integerrimi signori, si nasconde in campo il teppistello pronto a spaccare le gambe all’avversario. A questo punto sta all’intelligenza dell’allenatore fermare e punire il giocatore scorretto, oppure, nei casi più pervicaci, escluderlo dalla squadra.
Il fatto più frequente, invece, in molte palestre di AM e di SdC, è proprio questo: l’allenatore stesso (che non è cresciuto di testa), in maniera più o meno diretta, fa capire a chi infrange le regole che è giusto “andare fino in fondo” (in omaggio al realismo dello scontro) ed è il migliore quello che picchia sodo, regole e non regole. E alle proteste degli infortunati la risposta è sempre la stessa: “Stiamo facendo karate, judo, muay thai, aikido, krav maga, mica uncinetto.”
L’incidente occasionale è tipico naturalmente di parecchie attività umane, marziali e non : un mio conoscente ha avuto il cristallino fracassato da un colpo violento durante un doppio misto di tennis! Tuttavia bisognerebbe riflettere in ogni singola realtà territoriale e magari (ma non so se sia concretamente possibile) procurarsi la tipologia e l’incidenza degli infortuni in alcune palestre e in determinate discipline. A volte comunque una verifica empirica di quanto spesso capita troppo frequentemente ad altri praticanti in determinate situazioni e con determinati istruttori e maestri dovrebbe mettere sull’avviso i compagni di pratica più accorti e risvegliare in modo critico quello che in termini giuridici si chiama “la diligenza del buon padre di famiglia”. Aggiungo poi che, visto che la stragrande maggioranza di praticanti e una buona percentuale di istruttori vive di un altro lavoro o cespite, mi sembra molto poco saggio rischiare di farsi male sul serio, spesso con gli strascichi di danni fisici permanenti o cronicizzati.
Alla pretesa dell’invincibilità si associa quella dell’efficacia. Abbiamo però già visto come tale dogma sia facilmente confutabile per tutte le variabili che entrano in gioco. In ogni caso, come è stato già esaminato, esso è una formidabile molla commerciale per attirare più allievi possibili.
Pedrini illustra anche come la spinta “spiritualistica” muove parecchi tra coloro che ricercano in modo spasmodico l’esoterismo guerriero a tutti i costi:
“(…) Credo che di fronte alla mistificazione e all’incredibile, tronfia, sistematica sopravvalutazione di se stesso che l’ambiente marziale pratica e conduce in nome di oscure e mal digerite idealità, sia giunto il momento di smitizzare, di desacralizzare, di dire le cose come stanno: che la pratica dell’arte marziale come è sempre stata praticata nei contesti tradizionali originari è socialmente impossibile, impossibile preservarne i valori, a meno che non ci si accontenti di venerare vuoti simulacri. Non ci interessa in questa prospettiva, evidentemente, citare casi e individualità che sembrano smentire queste tesi. Smitizzare, porre questioni, agitare le acque di un ambito chiuso claustrofobicamente in se stesso, perso dietro diatribe del tutto futili e che sembra non avere alcuna intenzione di porsi il quesito fondamentale: che senso hanno, qui e ora, le arti marziali?. La risposta non può essere fumosa, individualistica, consolante e velleitaria. Se esiste deve essere chiara e serena.” (Pedrini, op, cit., pag. 53).
Trasmissione di tecniche quindi, ma fortemente decontestualizzate.
Questo approccio laico permette un distacco maggiore e sano nel praticante che non si farà così coinvolgere in atteggiamenti fideistici poco compatibili in un contesto attuale. In questa cornice “quelli disposti ad arrivare fino in fondo nel combattimento” in nome di una presunta veridicità cadono palesemente in contraddizione e proprio sul piano tecnico. Se un’AM o uno SdC si fondano non solo su un bagaglio tecnico ma anche su regole, chi non rispetta le stesse fa qualcos’altro, si trova fuori dei dettami della disciplina, insomma si pone al di fuori dello schema che costituisce quel particolare tipo di pratica. In soldoni, ha voglia di menare e mena.
Mi sento, in tale direzione, di contestare anche le pretese di invincibilità dei sistemi di Difesa Personale (DP).
Le tecniche applicate in ambito militare non sempre valgono nei frangenti della vita civile (esiste, a tale proposito, tutta una casistica legale connessa a “incidenti” causati da persone addestrate nella difesa personale). Di solito poi, il praticante di tali sistemi non ha alle spalle il lungo e giornaliero allenamento degli addetti al settore. Le variabili anche psicologiche e di reazione sono proporzionali alla pratica intensa e professionale, alle dimensioni e alla preparazione atletica dell’avversario, alle circostanze esterne in cui avviene tale aggressione. In certe situazioni estreme non so quanto possa valere il bagaglio tecnico acquisito. Nel caso dell’assalto di una villetta isolata da parte di cinque o sei disperati armati, che cosa si può fare di tecnicamente valido se gli stessi tengono in ostaggio moglie e figli? E’ pur sempre vero che chi ha a disposizione ore di allenamento costante anche se non intensivo sarà sempre più avvantaggiato del pantofolaio piazzato davanti alla televisione ma è vero pure che le promesse di invincibilità propagate da certe palestre, siano esse di AM, di SdC o di DP, non esistono. Insomma è la novella versione dell’Elisir del Dottor Dulcamara in salsa marziale.

goku

SEVERI SAMURAI O ORFANI DI GOKU?


Fatal error: Class 'AV\Telemetry\Error_Handler' not found in /membri/.dummy/apps/wordpress/wp-content/plugins/altervista/early.php on line 188