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Posted by on martedì, Aprile 3, 2018 in Wurstel |

Vacanze a Moscazzano

La ricetta per fare un film mediocre è facile: basta non rispettare i ritmi, aggiungere scene inutilmente incomprensibili, metterci un tocco di sciatteria dando particolari inesatti, e il gioco è fatto. Questo è quanto è successo anche all’osannato Call me by your name, sceneggiato da James Ivory (che ne ha ricavato un Oscar) e diretto dal regista italiano Luca Guadagnino con un cast internazionale. Ho visto il film in aereo, di ritorno da New York, e ciò ha aggiunto disagio al consueto viaggio notturno con jet lag annesso. Il film è tratto dal romanzo omonimo (del 2007) dello scrittore statunitense André Aciman. Lo scrittore ambienta la storia nel 1987, tra Bordighera e Roma, mentre Guadagnino lo retrodata al 1983, forse per parlare del nascente governo Craxi (citato da alcuni personaggi nel corso di sconclusionate discussioni politiche a tavola). Inoltre il film sposta la vicenda a Moscazzano, nella Bassa cremonese (con gite occasionali nella tentacolare metropoli di Crema), e, per la parte finale, a Bergamo Alta e Clusone. Con un tocco di surrealismo ferroviario, in quanto uno dei protagonisti, per recarsi da Bergamo a Milano passa da Clusone, oltretutto da una stazione non più in esercizio dal lontano 1967. (Chi conosce anche solo un po’ la geografia lombarda capirà che è come andare da Roma a Napoli passando per Perugia).

Non c’è film italiano senza un’incursione nella chiacchiera politica, e qualche scena da cui non si capisce nulla, se non che la gente di sinistra (o genericamente progressista, come i ricchi italo-ebreo-americani della storia) è confusa, velleitaria e fastidiosamente snob (l’evocazione a sproposito di Luis Bunuel e il suo Fantasma della libertà). Per par condicio non possono mancare la contadina che esibisce il ritratto del Duce, né la governante che rimpiange i partigiani.

Ma la cosa migliore sono le scene staccate dal contesto, altro marchio distintivo di certo cinema italiano che ama le scene brevi e isolate. Per dimostrare che le unità aristoteliche ci fanno una cippa, si salta a piè pari da un luogo e da un personaggio all’altro, senza concatenazione logica. Ad esempio, al culmine della vicenda il giovane protagonista si reca nel bosco di notte in bicicletta, come a cercare qualcuno o qualcosa. Segue dissolvenza, e lo ritroviamo la mattina nel proprio letto.

Erotismo: ce n’è. Ai miei tempi, negli anni Settanta, le platee furono scandalizzate dalla famigerata scena del burro in Ultimo tango a Parigi di Bertolucci. Ma oggi, si sa, prevale l’alimentazione sana: infatti c’è una scena erotica tra il giovane Elio, diciassettenne scontroso il cui hobby principale è trascrivere musica classica, e una pesca (la quale non appare consenziente). Già l’amico appare indeciso, per dirla volgarmente, tra la banana e l’albicocca (sulla quale c’è un’interessante digressione etimologica), forse non era il caso di complicare la faccenda con un terzo frutto. Nel film c’è un grande sfoggio di cultura degno di miglior causa, come quando la madre del giovane Elio legge una fiaba in tedesco che poi si scopre essere un romanzo francese del sedicesimo secolo, per non parlare delle citazioni di Heidegger ed Eraclito messe lì a casaccio (da parte di un dottorando in archeologia). Il film si salva un po’ sia per le numerose scene di sesso (etero e gay), sia, soprattutto, per il dialogo finale tra Elio e il padre, che lo esorta a non aver paura dei propri sentimenti. Mi risulta incredibile che questo film, generoso negli intenti ma francamente sbrodolato, abbia potuto ricevere dieci minuti di standing ovation al New York Film Festival (forse era già passato il giro dei cocktail).

(Con un po’ di acrimonia, mio marito fa notare che in quella stessa estate 1983 in cui Oliver ed Elio facevano le vacanze a Moscazzano, lui era a Comiso a prendersi il caldo e le cariche della polizia davanti alla base missilistica …).

Comunque, dicono che ci sarà un sequel. Forse si chiamerà Chiamami col tuo codice fiscale.


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