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Posted by on sabato, Luglio 31, 2021 in Streghe, Wurstel |

Vivi e lascia vivere

Nove giorni di ferie in Versilia con i parenti di mio marito hanno posto – tra gli altri – il problema di cosa vedere la sera sullo schermo televisivo. A casa per tutto l’anno risolviamo la questione con serie e film su Netflix o Prime Video – più raramente Rai Play, salvo rare eccezioni legate per lo più a eventi calcistici (Champions League, Europei). Ma in vacanza con la parentela questo non si può certo fare, non sarebbe opportuno chiudersi in camera col tablet mentre gli altri stanno in salotto. Quindi dobbiamo riscoprire quel mondo ormai sconosciuto che è la TV generalista italiana.

Per fortuna, quasi tutte le sere abbiamo trovato film – classici o meno – abbastanza potabili (tra cui il mitico Arsenico e vecchi merletti, risalente agli anni 40 e inopinatamente programmato su TV 2000, la TV del Vaticano, che almeno per una volta è servito a qualcosa). Ma domenica 18 luglio non c’era proprio verso: il capriccioso telecomando di mio suocero (letteralmente attaccato con lo sputo) si è bloccato sul meno peggio, ovvero Raiuno che la replica proponeva della fiction italiana Vivi e lascia vivere, che era stata trasmessa nella primavera 2020 senza lasciare tracce apparenti nella storia del nostro Belpaese. Già siamo partiti col piede sbagliato: io diffido istintivamente di qualunque opera narrativa (film, libro, serie) che come titolo porti un proverbio o un modo di dire. Mi pare un modo di barare, di non dare al lettore o spettatore alcun indizio sul potenziale contenuto della storia. Come se Dante Alighieri avesse intitolato il suo divino poema Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio, o Manzoni avesse scritto Moglie e buoi dei paesi tuoi.

Siamo riusciti a vederne solo un episodio e mezzo sui dodici programmati (durata di ciascuno 50 minuti, inframmezzati da quintali di pubblicità, altra cosa a cui non eravamo più abituati), prima di soccombere alla sonnolenza. La visione ha confermato tutti i miei pregiudizi sulle produzioni italiane: recitazione pessima (dalla protagonista Elena Sofia Ricci in giù), buchi di trama, inverosimiglianze varie, ritmi lentissimi. La protagonista, a nome Laura, è sposata con un ludopatico che di mestiere canta sulle navi da crociera, del quale apprende la morte, avvenuta in circostanze misteriose a Tenerife. Ha due figlie e un figlio. La maggiore, Nina, smania per fare un non meglio precisato master a New York, ma di fronte alle difficoltà economiche della famiglia si rassegna a fare la cubista in un bar equivoco. La seconda, Giada, ha come hobby il taccheggio nei grandi magazzini e in un abito rubato scopre per caso il diario di un’altra ragazza (spunto narrativo appena abbozzato e, almeno nella prima ora di visione, abbandonato). Il maschio, Giovanni, è nella squadra di pallanuoto, il cui allenatore tiene discorsi che dovrebbero essere motivanti e invece sono più noiosi dell’elenco telefonico (nostalgia del Marca Budavari! del grande Silvio Orlando in Palombella rossa). Nonostante la famiglia sia con le pezze al sedere (bollette e rate di mutuo non pagate da mesi) vivono in una casa enorme e Laura può permettersi viaggi andata e ritorno Napoli – Tenerife. L’annuncio che la madre fa ai figli della morte di Renato, il cantante ludopatico, è piatto come la lettura dell’ordine del giorno dell’assemblea ordinaria di una società in accomandita. Del resto, anche la celebrazione funebre assomiglia a un aperitivo aziendale, ravvivato solo dalla sorella del defunto che canta Summertime in un modo che avrebbe fatto rivoltare nella tomba George Gershwin (spoiler: purtroppo non avviene, la storia ci avrebbe guadagnato).

A Tenerife la morte di Renato, avvenuta a quanto pare nell’esplosione di una palazzina – è gestita con sorprendente noncuranza da tutti gli abitanti del luogo. Nonostante le fiction italiane siano piene di commissari e marescialli, qui non c’è uno straccio di tutore dell’ordine o di investigatore privato che indaghi. L’impiegato della pensione Florida di Tenerife (su Google Maps esiste un Hotel Florida, quotazione 3,3 su 5), non si fa problemi a consegnare – su semplice esibizione della carta d’identità di Laura – alla supposta vedova gli effetti personali del defunto, già cellofanati.

Il ritmo è lento anche perché i protagonisti impiegano minuti interminabili a deprimersi per la loro situazione, anziché fare qualcosa. In una serie non italiana, in novanta minuti, Laura avrebbe trovato il tempo di reinventarsi professionalmente come boss della droga, con accenti thriller (produzione USA), da commedia degli equivoci (francese) o di rivalsa sociale (inglese).

Laura lavora in un ristorante la cui padrona è una sadica che ama umiliare i/le dipendenti (momento Ken Loach, non sviluppato). Perde il lavoro perché beccata a rubare contanti dalla cassa del ristorante. A quanto pare troverà il riscatto umano e professionale preparando un sartù per la prima comunione della figlia di una collega, ma a quel punto eravamo già cotti.

Tornando a casa ho letto su Wikipedia che Vivi e lascia vivere ha avuto giudizi lusinghieri da critica e pubblico. Se questi sono i migliori prodotti italiani, figuriamoci i peggiori.


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