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Posted by on sabato, Settembre 2, 2023 in New York |

Quattro anni e mezzo dopo

Mancavo da New York, la città dove vive nostra figlia, dalla Pasqua del 2019. Nel frattempo, ci sono state una pandemia mondiale, guerre tuttora in corso,  il ritorno dell’inflazione e il trasferimento di Arianna da Sunnyside (Queens) a Hamilton Heights (Manhattan). Hamilton Heights fa parte di quella grande fetta di isola chiamata Harlem, in breve tutto ciò che sta al di sopra di Central Park ma non è ancora Bronx. E anche se di nome è Manhattan, è quanto mai lontano (in termini di tempo-metropolitana, ma anche di atmosfera e stile di vita) dalla Manhattan più nota ai turisti, quella di Times Square, dell’Empire State Building, di Wall Street. Anche lì passa Broadway (che come un serpentone si snoda da sud a nord lungo tutta l’isola) ma non ha niente a che vedere con i teatri: è più un enorme Viale Monza costellato di supermercati, chiese pentecostali, farmacie e negozi di articoli collaterali alla cannabis (nel frattempo legalizzata). Il quartiere di Hamilton Heights, a prevalenza afroamericana e latina, presenta da un lato zone residenziali con esclusive ville in arenaria (Convent Avenue) dall’altra vie con case popolari e gente che se ne sta tranquillamente a chiaccherare sui gradini, o improvvisa feste di marciapiede. Un po’ Napoli, un po’ via Padova, senza la frenesia di Midtown.

Poiché era l’undicesima volta che venivamo a New York, le cose più gettonate da ogni guida turistica le avevamo già viste. Ci siamo quindi avventurati nella scoperta del quartiere e più in generale del nord Manhattan, meno conosciuto ma con cose che meritano la deviazione, come direbbe la Michelin.

Ci sentiamo quindi di consigliarvi: 1) Hamilton Grange (vedi foto) la dimora di Alexander Hamilton, l’uomo che sta sulla banconota da 10 dollari e a cui hanno dedicato un costosissimo musical, immersa nel verde e visitabile gratuitamente; 2) la Dyckman Farmhouse, l’ultima fattoria olandese rimasta in città (visita 3 dollari) ; 3) la Morris-Jumel Mansion, la residenza più antica di Manhattan, costruita nel 1765. Naturalmente ci ha risieduto anche Washington (come Garibaldi in Italia e Napoleone in Francia, ha dormito praticamente ovunque). Intreccio interessante: l’erede dei proprietari sposò in seconde nozze Aaron Burr (ex vicepresidente, l’uomo che aveva ucciso Hamilton in duello), poi chiese il divorzio e scelse come avvocato il figlio dello stesso Hamilton.  La visita costa 10 dollari a cranio (comunque poco per la città) ma se avete la fortuna di venire una domenica pomeriggio d’estate è gratis e c’è anche il concerto jazz in giardino.

Tutte queste tre mete turistiche sono state dotate di apparato iconografico che cerca di ricostruire le vite degli “invisibili” di allora (schiavi e nativi in primis).

Un’altra meta di rilassanti passeggiate è il City College, università pubblica a prezzi meno assurdi della vicina Columbia.

Per scatenare la vostra invidia, aggiungerò solo che – dal 12 al 24 agosto – abbiamo goduto di temperatura estiva ma mite e senza afa (23-25 gradi) mentre l’Italia soffriva i morsi della canicola.

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Potrebbe essere un'immagine raffigurante 7 persone e Monticello

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Posted by on domenica, Luglio 30, 2023 in Wurstel |

Werner Fugazza e i lanzichenecchi di Albairate

Werner Fugazza incrociò sul pianerottolo l’ingegner Scannabue ed entrò subito in argomento.

«Ieri, dovendo andare da Lambrate ad Albairate per l’annuale Sagra della Busecca Coppata Con Finferli Trifolati, presi un convoglio di Trenord. Trovai un posto vicino al finestrino …»,

Scannabue si rassegnò: quando Werner partiva in quarta non c’era nulla da fare se non ascoltarlo sino al termine.

«Come sempre durante i viaggi lunghi e avventurosi, tirai fuori il mio telefonino e cominciai a guardare i miei video preferiti su Iutùbb: i funerali di Berlusconi e di Paolo Limiti, una compilation dei migliori rigori sbagliati da Evaristo Beccalossi, la spassosissima webseries sul Petauro Petomane. Vicino a me sedeva un tipo che avrà avuto sui settant’anni. Aveva i capelli bianchi, gli occhiali, un vestito molto stazzonato di lino blu (malgrado il caldo) e una camicia leggera. Aveva una cartella di cuoio marrone da cui estrasse tre giornali che mi pare si chiamavano New York Times, Financial Times, Robinson. Cercai di attaccare discorso parlandogli del Petauro e dell’odioso voltafaccia di Lukaku, ma quello niente. Anzi, tirò fuori un taccuino, una penna stilografica e un libro, che si chiamava se non sbaglio Sodoma e Gomorra. Finalmente qualcosa che capivo cos’era: Gomorra è quella serie televisiva dove ci sono i terroni camorristi che si ammazzano tra loro, magari quello era uno spin-off. Glielo chiesi ma non ebbi risposta. Disperato, mi guardai intorno. Tutti i miei vicini di vagone erano identici a lui. Dieci, trenta, cinquanta settantenni in lino blu stazzonato, camicia bianca e cartella di cuoio. Tutti avevano l’orologio e nessuno lo smartphone. Cercai di rivolgermi a qualcun altro di Loro, parlando di ragazze e di quale era il posto più figo per beccarle, se il night o la spiaggia. Niente, continuavano a prendere appunti con quelle odiose stilografiche. Intanto il treno, era arrivato a Cesano Boscone. Non sapevo che per andare da Lambrate ad Albairate si dovesse passare da Cesano Boscone, e poi persino da Gaggiano. Pensavo di avere sbagliato treno, ma invece è così. E a ogni stazione (anche a Trezzano sul Naviglio) ne salivano almeno cinque di loro. Mi sentivo come Frodo Baggins in Guerre Stellari quando viene circondato dai Lanzichenecchi.  Ma forse erano solo dei cosplàier, quei tizi che si vestono da personaggi dei fumetti per andare alle loro convenscion. Arrivato ad Albairate, mi sono alzato e me ne sono andato, nessuno mi ha salutato e non ho salutato nessuno». Il cagnetto Darkopancev, che era stato muto testimone dei fatti, scodinzolò significativamente all’ingegnere.

Poi arrivò l’ascensore e Werner vi si buttò dentro, mentre Scannabue rimaneva pensieroso davanti alla propria porta di casa. Entrò, si chiuse dentro a quattro mandate, staccò il telefono, tirò fuori dall’armadio il suo ansible e tracciò le coordinate di Boote Nekkar Epsilon.

Sullo schermo comparve un molosso in divisa blu con alamari bianchi. «Contrammiraglio Elkagnolinn», disse senza preamboli Scannabue «ho scoperto dove si svolgerà la Malefica Raunanza»

«Dove?»

«Albairate».

Come tutti sanno, la Malefica Raunanza è il nome che i Bootiani danno al raduno biennale degli agenti infiltrati antropoformi al servizio degli inesportabili Furetti di Aldebaran (che il Gatto di Schrōdinger li scotomizzi!). Essi sono usi (a loro dire, per passare meglio inosservati e per dare idea di granitica compattezza) antropoformarsi tutti in modo identico, decidendo la guisa in cui presentarsi in base ai Trending Topic del momento (nell’estate 2019, per dirne una, la cima del Kilimangiaro aveva ospitato un centinaio di Matteo Salvini con mojito d’ordinanza).

Concordate le opportune misure di infiltrazione, disturbo ed esfiltrazione da propinare ai millenari nemici, Scannabue ed Elkagnolinn si salutarono con l’iconica parola d’ordine Sempre viva la F.I.G.A. (Forza d’Infiltrazione Galattica Autocefala).

Quella sera, dopo ore di ricerca in Rete, compresi gli anfratti più malfamati del Dark Web, Werner Fugazza si dovette rassegnare: Sodoma e Gomorra non era disponibile su nessuna piattaforma, né era in programma a tempi medi. Si consolò con un’amichevole tra Kaiseripor e Salsomaggiore, con commento tecnico in bulgaro e sottotitoli in norvegese.

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Posted by on domenica, Luglio 16, 2023 in Arti Marziali, Wurstel |

Classici rovinati

Una sera d’estate, in attesa di scoprire una serie che avvinca, decido di riscoprire una storia classica: i sempreverdi Tre Moschettieri. Su una ben nota piattaforma trovo una versione abbastanza recente (2018) per scoprire solo all’ultimo momento che trattasi di produzione italiana. Decido di superare le mie ben note (e fondate) diffidenze verso il cinema nostrano e provo a dargli una chance: dopotutto, mi dico, per rovinare la perfetta macchina narrativa di Alexandre Dumas padre (con la collaborazione di Auguste Maquet e innumerevoli ghostwriters) ce ne vuole. Ebbene, ce n’è voluta, ma Moschettieri del Re (regia di Giovanni Veronesi, sceneggiatura di Veronesi stesso e di tal Nicola Baldoni) ha superato brillantemente la prova, trasformando un classico senza tempo in una marmellata senza senso. Il film (che porta il sottotitolo La penultima missione) sceglie di non adattare uno dei tre romanzi della saga dumassiana, ma di scrivere una storia originale, praticamente una fanfiction (e ci può stare). L’azione è situata “nel 1650 suppergiù”, ovvero venticinque anni dopo i Tre Moschettieri canonici, e inizia nel modo classico di un sequel: la regina Anna d’Austria (allora reggente in vece del minorenne Luigi XIV, in perenne conflitto con il Cardinale Mazarino) richiama i Tre (anzi Quattro) più o meno felicemente pensionati, per una pericolosa missione. D’Artagnan si è ritirato in campagna, dove alleva maiali e fa il porco con le mogli dei vicini. Stranamente, l’interprete Pierfrancesco Favino presta al personaggio un inopinato e caricaturale accento francese, un tantino incongruo in una storia ambientata in Francia. Athos (Rocco Papaleo) è diventato un vizioso castellano bisessuale dall’accento vagamente lucano. Aramis (Sergio Rubini), più canonicamente, si è fatto frate dall’accento sardo. Infine, Porthos è diventato un patetico rottame alcolista. Lo interpreta Valerio Mastandrea, che recentemente ha prestato la voce all’Armadillo, la coscienza cinica del fumettaro Zerocalcare, ovviamente in romanesco stretto. Anche per questo mio marito, reduce dal binge-watching di Strappare lungo i bordi e Questo mondo non mi renderà cattivo, da quel momento ha smesso di prendere il film sul serio, visto che ogni volta che sentiva parlare Porthos gli veniva di visualizzare un armadillo arancione antropomorfo. Fosse stato solo questo il problema! La realtà è che il film si è trascinato per un’ora e quarantacinque minuti in modo inconcludente, con gag volgari, recitazione improbabile, borbottii incomprensibili che fanno tanto “cinema italiano”. Poco credibile la missione affidata ai Moschettieri, che dovrebbero salvare gli Ugonotti (tra i quali inopinatamente viene a trovarsi il drammaturgo Molière) dalle mene di Mazarino (Alessandro Haber) il quale rotea gli occhi e ammazza disinvoltamente i suoi stessi subalterni come un cattivaccio da fumetto di serie C. Compare a un certo punto la femme fatale Milady (che però non è la stessa Milady dei Tre Moschettieri, visto che non conosce nessuno degli eroi e nessuno la conosce), senza dimenticare un servo muto che è una sorta di androide quasi invulnerabile. Verso la fine l’azione comincia a diventare ancora più incoerente: la dama di compagnia della regina e gli stessi Moschettieri riescono a coprire distanze di migliaia di chilometri a cavallo in poche ore; Milady si trasforma in un corvo nero e sparisce; il giovanissimo Re (non ancora) Sole viene rapito da ignoti e portato al confine con la Spagna; i poveri ugonotti da salvare vengono dimenticati e mai più menzionati. Di colpo, dissolvenza e (trovata che in tutte le scuole di sceneggiatura viene altamente sconsigliata) si scopre che la vicenda era stata tutta (tutta? anche le scene di sesso esplicito?) immaginata da un ragazzino dodicenne, che in attesa dei funerali di uno zio si era messo a leggere, per scacciare la noia e il dolore, un libro illustrato chiamato per l’appunto Moschettieri del Re. Il ragazzino scende in salotto e lì scopriamo che tutti i personaggi della storia avventurosa sono in realtà la trasfigurazione dei suoi parenti (Mazarino è il nonno carogna, il Servo Muto lo zio morto e così via). E qui la storia finisce, nella proverbiale coda di pesce.

Incredibilmente, il film (insignito nel 2019 del Premio Flaiano, probabilmente durante un momento di ubriachezza molesta della giuria) ha avuto un seguito, cosa che non si dovrebbe mai fare quando il primo film termina spiegando che Era Tutto Un Sogno. Nel 2020 è infatti uscito Tutti per 1 – 1 per tutti, opera recidiva dello stesso regista e degli stessi sceneggiatori. Stavolta il film comincia ai giorni nostri (2020) in piena epidemia di COVID: il ragazzino del primo film (che si chiamava Antonio e ora si chiama Uno) vive l’ultimo girono di scuola (tutti sfoggiano una stupenda chirurgica azzurra anziché le FFP2 che erano di rigore) e il maestro invita la classe a salutare la graziosa compagnuccia Ginevra (di cui tutti i maschietti, Uno compreso, sono segretamente innamorati) che parte per l’Inghilterra al seguito della madre. Dopo avere goffamente abbracciato Ginevra, Uno cominia a fantasticare e si ritrova protagonista della nuova avventura dei Moschettieri, chiamati dalla regina Anna a scortare Enrichetta d’Inghilterra in Olanda per dare in sposa la figlioletta Ginevra al principe d’Orange. Qui la licenza storica comincia a diventare eccessiva, visto che la vera Enrichetta nacque nel 1644, morì a 26 anni (qui il personaggio è quasi quarantenne) e non ebbe mai una figlia a nome Ginevra. Il film elimina un po’ di personaggi che erano centrali in quello precedente: non compaiono più Mazarino e Luigi XIV, ma soprattutto i Tre Moschettieri sono tornati Tre perché Aramis è morto (non vengono mai citate le circostanze ma si allude al fatto che siano vergognose): forse Sergio Rubini aveva litigato col produttore? Aramis comunque si è opportunamente reincarnato in un grazioso lupacchiotto (!) che fa da guida spirituale al giovane Uno. Con la partecipazione straordinaria di Cyrano de Bergerac e della Corte dei Miracoli, stranamente trasferita in campagna. Il film è venti minuti più lungo del precedente e se possibile ancora più sconclusionato, e secondo il benevolo giudizio di Wikipedia vorrebbe ricalcare la metanarrazione di La Storia Infinita, con l’alternarsi di sequenze reali e oniriche. La vicenda infatti si conclude con l’assalto dei Tre Moschettieri al furgoncino che porta Ginevra e la madre all’aeroporto: il piccolo Uno la rapisce per sé e vissero tutti felici e contenti. Si noti la visione tipicamente patriarcale delle donne nel film, dove esse sono tutte o vogliose più o meno represse (un picco del trash è la scena di sesso “a pecora” tra la regina Enrichetta e d’Artagnan, oltretutto inutile nell’economia narrativa), o damigelle in pericolo passive e contese tra Buoni e Cattivi come un baule di dobloni (Ginevra).

La conclusione è quanto mai diseducativa visto che – con l’alibi della Fantasia e dell’Immaginazione – si invitano i giovani maschi a non accettare la frustrazione sentimentale (ci può stare che la compagna di scuola che ti piaceva si trasferisca in un altro paese – ti fai dare l’indirizzo e vi scrivete, o vi messaggiate con Skype e simili, no?), ma a prendersi con la forza (e con l’aiuto di amici immaginari potenti e invincibili) ciò che il destino ti nega.

Direi che per quest’estate ho fatto il pieno di masochismo cinematografico. Da ora in poi, solo classici sperimentati.

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Posted by on sabato, Luglio 8, 2023 in Arti Marziali, Libri |

La spada giapponese

Un viaggio appassionato e appassionante dai primordi della storia del Giappone (la nascita della spada nipponica affonda le radici nelle leggende più remote e affascinanti del Paese).

Claudio A. Regoli (uno dei pionieri del Katori Shinto Ryu in Italia, direttore di due riviste di arti marziali) ci accompagna lungo tutto un viaggio: non solo della spada ma di tutte le principali armi bianche  della tradizione giapponese.

Il volume è corredato di tavole che illustrano le tecniche di lavorazione dell’arma, i dettagli del taglio, evidenziando le sottili differenze. L’Autore si sofferma anche sulla forgiatura e la politura, fasi fondamentali di lavorazione. Dopo un’ampia sinossi storica segue una panoramica delle scuole di scherma tradizionali e più recenti per finire poi in un capitolo che illustra nel dettaglio tutti i principi e le applicazioni del Kendo, moderna evoluzione agonista di un secolare percorso.

La riflessione che ne scaturisce non è eludibile: perché si continua a praticare l’arte della spada in un’epoca così distante dal nostro mondo?

“Vi è il piacere di mantenere in vita una realtà storica importante e la sensazione di partecipare a una realtà che si è sviluppata e si mantiene attraverso una catena ininterrotta di adepti (…)  Se oggi non è più importante la meta è tuttavia molto interessante e istruttivo il viaggio in sè” (p. 70).

Molto bello anche l’apparato illustrativo.

Claudio A. Regoli. La spada giapponese. Storia, tecnica e cultura, The Ran Network, 2023.

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Posted by on sabato, Luglio 1, 2023 in Pillole di Blog |

Le isole non trovate

Ho scoperto Termoli l’anno scorso andando in vacanza con mio marito e l’ho subito adorata, tant’è vero che ci sono tornata quest’anno con un’amica. In genere, quando dico che vado in vacanza a Termoli incontro due tipi di reazione. Un quaranta per cento delle persone confondono Termoli con Termini o peggio con Teramo, e tocca spiegar loro la rava e la fava (ecco perché si è diffuso il detto che Il Molise non esiste). Il rimanente sa benissimo cos’è e dov’è Termoli e reagisce invariabilmente con la frase Allora vai a vedere le Isole Tremiti (o variazioni sul tema).

L’anno scorso eravamo andati a Termoli in luglio: faceva talmente caldo che durante la giornata veniva voglia solo di starsene mollemente in spiaggia (bella spiaggia di sabbia) e buttarsi in mare (acque pulitissime, quasi caraibiche). Quest’anno, essendo giugno, mi sono detta con la mia amica: farà meno caldo, è la volta di provare a vedere queste famose isole. Tanto più che tutte le guide assicurano che ci sono i traghetti tutto l’anno, e il porto è facilmente raggiungibile a piedi dall’albergo e dal centro cittadino (a Termoli tutto è a portata di piedi).

Fin dalla prima sera, ci siamo informate a un chiosco di privati che organizzavano gite alle isole. Abbiamo chiesto informazioni sui traghetti e subito ci hanno proposto di noleggiare un gommone con tanto di skipper. Di fronte alle nostre perplessità, ci hanno proposto un giro delle grotte di San Domino (l’isola più grande) con bagno, poi di raggiungere con mezzi propri l’isola di san Nicola (sede dei principali monumenti e del municipio). Tutto quanto, a venticinque euro, con mezzi propri. Non erano in grado di fornire alcun orario di traghetti.  Anche in Rete la ricerca degli orari era assai difficoltosa. Ci hanno consegnato un pieghevole, che non dava però nessuna ulteriore informazione.

La sera dopo siamo tornate allo stesso chiosco e abbiamo chiesto ulteriori spiegazioni: ci hanno ribadito che dovevamo prendere i traghetti di linea, di cui non conoscevano gli orari. Una mattina alla spiaggia abbiamo incontrato una coppia, ci siamo messe a chiacchierare e abbiamo chiesto informazioni sulle isole. Ci hanno detto che nei giorni prima al porto c’era stato un problema di overbooking (troppe prenotazioni per pochi posti sui traghetti), la gente aveva finito per picchiarsi ed era intervenuta la polizia.

All’Ente del Turismo (di fronte al porto e aperto anche la sera) ci hanno detto che non avevano gli orari dei traghetti, che erano disponibile (forse) nell’altra sede, vicino alla stazione ferroviaria ma aperta con orari impossibili. Abbiamo chiesto al giovane operatore un consiglio, lui ci ha detto “Guardate, vi faccio vedere una cosa”. Ci ha indicato il porto e ha detto “Vedete, quella è la nave per le isole, chiedete gli orari lì”.

Alla fine della vacanza abbiamo scoperto un’agenzia viaggi che (forse) organizzava gite in giornata, ma ormai era tardi.

In conclusione, è stata un’esperienza degna del kafkiano agrimensore K che cerca di andare al Castello tra ostacoli e distrazioni varie. I locali si sono comportati con gentilezza e indolenza. Un menefreghismo educato e non strafottente, tipo i portoghesi a Lisbona che con filosofia Zen a qualunque richiesta rispondevano seraficamente Nao ha (non c’è).

Viene anche il sospetto che a Termoli non siano poi molto interessati a indirizzare i turisti alle isole Tremiti, le quali fanno parte non solo di un’altra provincia (Foggia) ma di un’altra regione (Puglia). Un altro effetto negativo del regionalismo esasperato. Ci riproveremo un altr’anno, armandoci di pazienza.

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