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Posted by on domenica, Dicembre 17, 2017 in Racconti, Streghe |

Lettera di Grimilde

Cara ragazza, non scrivo nemmeno il tuo nome: questo ti dà la misura di quanto poco ti considero. Non ti nascondo tutto il rancore che ho provato nei tuoi confronti, quando sei riuscita ad andare a convivere con Filippo.

“Beh,” dirai, “che ti aspettavi? Hai più di cinquant’anni, sposata più o meno felicemente, con un figlio che sta per convolare a nozze e un’altra già sposata. Cosa potevi pretendere da Filippo?”.

E invece pretendevo, e tanto. Lui mi ha sempre considerato una vecchia amica, una con cui dividere chiacchere e confidenze ai mercatini domenicali dell’artigianato, il nostro hobby, o secondo lavoro, se preferisci. Lui fabbro medievale, io creatrice di braccialetti e collane di pietre dure e conchiglie. Lui che una volta ha pure esposto sulla sua bancarella una cintura di castità, messa lì per stupire e scandalizzare. Le ragazze ridevano e arrossivano, gli uomini si davano di gomito. Mi è sempre piaciuto questo lato volgare di Filippo, io che sono abituata a stare tra gente corretta ed educata. Come te, mia cara, con quel faccino da educanda e i capelli raccolti a crocchia come un’istitutrice d’altri tempi. Ma che ci ha trovato Filippo in una come te?

Tu non lo sai, ma ci siamo conosciute. Un giorno in cui in ufficio c’era poco da fare, mi sono presa una mezza giornata e sono venuta al tuo paese sul lago. Sono entrata nella tua profumeria e ti ho fatto impazzire alla ricerca di un’essenza particolare. Che cosa avrai pensato di quella donna attraente e un po’ snob che ti ha tenuto occupata per un’ora? Che era una stronza, e infatti lo sono, specialmente con te. Io Filippo me lo volevo portare a letto, volevo farne il mio amante, e invece tre anni fa scopro su Facebook il vostro fidanzamento, qualche giorno prima di Natale. Mi è salita la rabbia, e sono diventata paonazza, tanto che Giulio, mio marito, mi ha chiesto se stavo bene e mi sono dovuta inventare uno sbalzo di pressione, mettendomi a letto. Almeno una volta al giorno spiavo le foto dei vostri viaggi, dei momenti lieti con le vostre famiglie, delle gite con gli amici. Mi alzavo con questa ossessione, e cercavo di capire qualcosa di te. Ma tu, di te, scrivevi poco. Quando incontravo Filippo ai mercatini, facevo con lui la compagnona, la sorella maggiore. Ma le trentenni come te sono delle ingenue, se pensano di poter accalappiare uno come lui andandoci a convivere, senza garanzie e senza obblighi. Quelli come lui rimangono legati all’idea tradizionale della moglie e dell’amante. Avresti dovuto fargliela annusare a lungo, prima, strappargli la promessa e poi, a nozze fissate, concederti. Invece, da brava provinciale, hai sbagliato tutto. Ben ti sta.

Poi è inutile che scrivi cose sull’importanza della solitudine e dell’autonomia, per consolarti del fatto che lui ti ha mollata. Che stupida, non hai capito che scrivere i cavoli tuoi su Facebook significa gridarli al mondo. E infatti sono stati letti da chi, alla faccia tua, si accinge a sedurlo. Tra pochi giorni sarà di passaggio a Milano, e l’ho invitato a prendere un caffè, poi, come si dice, da cosa nasce cosa. Non ti auguro niente di buono, non te lo meriti. Una volta tanto, Biancaneve è stata sconfitta.

Con tutto il rancore,

Grimilde

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Posted by on giovedì, Dicembre 14, 2017 in Racconti |

Lettera di un medico

Cara Laura, mi ricordo quando in quarta liceo, al Leonardo da Vinci, siamo usciti dalla classe, dopo l’interrogazione di matematica, e tu mi hai detto “Voglio avere tre figli”. Eravamo amici anche allora, quell’amicizia tra uomo e donna che qui in Italia la maggior parte della gente non capisce, e che commenta con sorrisetti e allusioni. E tu, invece, sei stata la mia migliore amica, sempre, quella che ascoltava tutte le mie lamentele e asciugava le mie lacrime quando le donne mi mollavano. Quella che mi ha fatto accettare la mia singletudine, alla fine. Io sono stato invece molto felice della tua storia e del tuo matrimonio con Riccardo. E’ stata un’emozione farti da testimone. Sono contento di essere anche il tuo ginecologo, e di aver capito subito che c’era un problema, e di averle provate tutte, in tre anni di tentativi. La sterilità di tuo marito (ormai conclamata dopo gli ultimi sofisticati accertamenti) non ci lascia dubbi. Io non ho dubbi nemmeno sul vostro amore, e so che lui accetterà l’inseminazione eterologa, nella clinica di Nizza dove ho colleghi di cui mi fido. La France, toujours la France! In questo Bel Paese, le cose girano sempre nello stesso modo. Non dare ascolto alle beghine, che ti sussurrano che è da sfacciate, che è una cosa che fanno le puttane. Ascolta il tuo corpo di donna e sorridi alla vita.

Il tuo amico di sempre, Nicola.

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Posted by on domenica, Novembre 19, 2017 in Racconti |

Lettera di un’insegnante di acquerello

Cara Ilaria, è meglio se ti stampi questa mail e te la rileggi, come si faceva in altri tempi con le lettere. Non sia mai che un click, inavvertito e impietoso, la cancelli, anche solo per sbaglio. Ti servirà a fare luce nei momenti bui, e dall’ultimo tuo pianto disperato al telefono ho paura che ce ne saranno tanti. Se Giancarlo voleva farsi mollare da te, l’ha fatto nel modo più crudele, facendosi trovare nel vostro letto con una biondina scialba, che ti ha scoccato un’occhiata di disprezzo prima di rivestirsi con calma e lasciarvi soli. Lo so che sei persa e affranta, ma il tuo è un copione già visto tante volte. Giancarlo non poteva essere l’uomo giusto per te, non può esserlo per nessuna. Farà la stessa cosa, prima o poi, alla biondina con lo sguardo sprezzante. Quelli come lui, quando vogliono staccarsi da una donna, cominciano a non farsi trovare, a dimenticare di chiamare o mandare un messaggio per tutto il giorno. Ti fanno stare l’anima appesa, e si divertono a guardare di lontano questa impietosa impiccagione.

Parliamo di Giancarlo. Giancarlo, che non perdeva una domenica di bungee jumping, perché, come avevi detto tu, “quando ne parla s’illumina tutto”. E tu t’illuminavi del suo sguardo, mentre guardavi le foto che postava su Facebook o Instagram. Lui, solo lui. Ripreso in tutte le fasi del salto, colto nell’attimo in cui si lanciava, adulato da tutti i suoi amici, i colleghi di lavoro, i parenti. Eppure tu non sei da meno. Tre lingue parlate e scritte perfettamente, un ottimo lavoro, la passione del mare e degli acquerelli, ma non hai capito con chi avevi a che fare. Ti sei fatta intrappolare dalla sua aria sicura, dal suo sorriso di eterno ragazzino in cerca di affetto, dalle sue ritualità esasperate quando doveva affrontare il salto. Non hai mai capito che il salto nel vuoto lui lo faceva perché, per prima cosa, il vuoto lui lo aveva dentro, e non sapeva come dirlo nemmeno a sé stesso. Per un po’ sei andata bene, eri la novità adorante dei suoi mirabolanti racconti. Gli piacevano i tuoi occhi stellati, il tuo viso di ragazza bruna acqua e sapone. Servivi come schermo su cui proiettare il suo ego smisurato. Quando avete cominciato a vivere insieme, ho visto lo strappo. Ti incrociavo al supermercato, o per strada, e quando ci salutavamo avevi sempre lo sguardo sfuggente e il sorriso tirato. Quando ti concedevi la mia ora di lezione, i tuoi acquerelli, come il tuo volto, avevano perso la luminosità. E quando siete venuti a saldare le ultime lezioni del corso, ho visto le vene del tuo collo tese. Non volevi lasciare la pittura, ma lui lo esigeva, per importi il suo volere una volta di più.

“Non avrò più tempo di venire da te, Veronica,” mi avevi detto con voce sommessa, “ora mi devo occupare di Giancarlo.”

Per fortuna la casa era tua, e lui ora ha dovuto slogggiare. Dovrai affrontare serate buie, piene di rancori e rimpianti, attese vane e soprattutto ricordi. Ricorderai tutte le frasi piene di velenoso disprezzo che lui ti lanciava, ma tu non dare voce a quei suoi commenti beffardi. Risali la china, chiudi gli occhi e ascolta il tuo respiro. E, mentre ti fai attraversare dal dolore, canta le ninnananne che ascoltavi da bambina. Piangi tutte le tue lacrime, fiduciosa che un giorno spunterà una gioia, come una violertta primaverile. Allora comincerai la vera risalita, perché avrai imparato a non farti più calpestare da un uomo. Il tuo sorriso avrà la luce smagliante del migliore acquerello che hai mai dipinto. Io sarò qui ad aspettarti, per una lezione, una tazza di tè, o solo per ridere insieme.

La tua amica Veronica

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Posted by on mercoledì, Febbraio 8, 2017 in Racconti, Streghe |

Il Pescatore Amelio

Sono lieta di pubblicare oggi una favola in poesia, gentilmente offerta dal mio amico Lorenzo Vantellini.

Il Pescatore Amelio
(Un omaggio al signor F.D. che parlava dei pitosfori di capo Ampelio)

Tra i bei pitosfori del capo Ampelio,
cammina il giovin pescatore Amelio
diretto al mar con amo, rete e lenza,
per guadagnarsi il viver con pazienza.

5 Siede sullo scoglio, la rete getta;
è ancora presto; quindi non v’è fretta.
“Se il sol ancor non spunta da levante
avrai pesca propizia ed abbondante”

L’antico detto non è disatteso:
flette la rete per l’ingente peso.
10 “Eureka! – grida Amelio in allegrezza –
La pesca d’oggi mi darà ricchezza.”

Ma tra le maglie invece, per Dïone!,
neppure un pesce, solo un bel tritone
15 dal crin ceruleo, con smeraldo l’iride
e dal viso splendido al par di un Paride.

Quella vision rapisce tosto il cuore
dell’Amelio, palpitante d’amore.
dal viso del triton resta incantato;
20 della creatura s’è innamorato.

“Deh pescator! – l’implora – fammi andare,
ché creatura son io del vasto mare,
fammi andare – gli ripete – che poi
ti ricompenserò con quel che vuoi.”

25 “Bel tritone, io t’imploro: non lasciarmi,
poiché da te non voglio separarmi,
ma se il destino vuole che io ti lasci,
che la tua bocca almeno la mia basci.”

“Pescator sciocco! Che chiedi non sai,
30 dal bacio mio tornar più non potrai,
anch’io t’amo, giovane pescatore:
non ti bacerei, proprio per amore,

ma la richiesta è stata pronunciata,
sia la tua bocca dalla mia baciata.
35 Orsù con le tue labbra t’avvicina,
che gusterai quel bacio di rovina.”

l’Amelio s’avvicina con la bocca,
il tritone il bacio suo fatal scocca;
la sensazion piacevole vien tetra,
40 il pescator è divenuto pietra.

Or dello scoglio infin s’è fatto parte;
di quel destin non può cambiar le carte
il triton, che sul sasso s’è adagiato,
per più non separarsi dall’amato.

45 Così, pur’egli si lascia morire,
sul promontorio i dì egli vuol finire;
divien schiuma ai flutti del capo Ampelio,
per quell’amor del pescator Amelio.

ampelio

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Posted by on giovedì, Febbraio 2, 2017 in Racconti, Wurstel | 1 comment

Un Principe da risvegliare

Ricevo, e volentieri pubblico, una favola scritta dal mio amico Lorenzo Vantellini. Grazie a Lorenzo, e, per la revisione, grazie al suo amico Matteo Mario Vecchio. Godetevela!

C’erano una volta un re e una regina tanto desiderosi di avere un figlio. Dopo anni, finalmente, le buone Fate del Giardino del Castello decisero di accontentarli: così, il primo giorno d’estate, nacque un principino, cui diedero il nome di Astro, poiché era la stella del re e della regina.

Immensa fu la gioia dei due sovrani: talmente grande che il re decise di dare una grande festa nel castello, alla quale invitò tutti i suoi sudditi. Non si dimenticò neppure delle buone fate, che appena giunte si avvicinarono alla culla per offrire al principino un dono ciascuna. La prima gli offrì il dono della bellezza, la seconda della forza; quindi gli fu donata la bontà; poi il coraggio. Vennero i doni della saggezza e dell’intelligenza.

Quando arrivò il turno della settima fata, un vecchio vestito di nero dal mantello viola si fece largo tra gli invitati: era Eldo, l’anziano e malvagio zio delle fate che tutti davano per morto e che per questo non era stato invitato.

– Vedo che qui c’è una grande festa, alla quale non sono stato inviato!

– Perdonatemi – rispose il re -, ma mi era giunta la notizia della vostra morte… Ma prego, mi fa piacere sapervi ancora in vita; accomodatevi.

– Non preoccupatevi, sire; sono qui solo per offrire al piccolo un dono anch’io.

Un brivido di terrore zittì tutti.

– Ecco il mio dono: il giovane Astro, quando compirà diciotto anni, si ferirà con la lama di una spada, e morrà.

Detto questo, scomparve, lasciando la corte nello sgomento.

– Ma non si può fare nulla? – chiese alle fate la regina disperata; il re, muto per lo spavento, si era abbandonato a un pianto dirotto.

La settima fata, allora, poiché ancora non aveva offerto il proprio dono, disse:

– Non si possono cancellare i malefici dello zio; tuttavia posso trasformare la morte in un sonno profondo. Astro si risveglierà quando riceverà un bacio di vero amore.

E così il re, non potendo distruggere tutte le spade del regno, fece in modo di proteggere il più possibile l’amato figlio: dichiarò pace ai regni confinanti, non mobilitò più l’esercito, dando inizio così ad un tempo di prosperità.

Intanto il principe cresceva, e, come ogni principe che si rispetti, si esercitava con la spada; il re, pertanto, per evitare che si potesse ferire, chiamò a corte i fabbri più esperti del regno affinché potessero forgiargli un’armatura la più resistente possibile.

Non soddisfatto, organizzava sontuose feste al castello invitandovi tutte le più belle fanciulle del regno, nella convinzione che Astro si sarebbe innamorato di una di loro.

Man mano che cresceva, Astro diventava sempre più bello, con i suoi occhi verde smeraldo e la sua lunga e folta chioma nera.

Si avvicinava il giorno del suo diciottesimo compleanno. Diciotto anni! Non era un compleanno qualunque, e doveva essere festeggiato come si doveva. Il re organizzò a corte uno splendido ballo.

Poco prima della festa i servitori aiutarono Astro a prepararsi per il ballo. Lo vestirono con gli abiti più belli, cuciti per l’occasione dal sarto di corte. Era quasi tutto pronto: mancava solo il calzolaio con le nuove scarpine, ma questui tardava a venire.

Finalmente giunse un vecchietto con in mano delle splendide scarpette di seta blu.

– Scusatemi del ritardo, altezza – disse -; per farmi perdonare, permettete che sia io stesso a calzarvele.

Il principe acconsentì, senza sospettare che all’interno della sinistra ci fosse la punta di una spada; il vecchietto gliela fece calzare con tutte le sue forze fino a quando riuscì a ferirgli il piede con quel frammento di lama.

Astro cadde allora in un sonno profondo, mentre il vecchietto – che altri non era che il mago Eldo – scomparve prima dell’arrivo delle guardie con il re.

Disperato, il re corse a chiamare tutte le giovani più belle e nobili del regno.

– Che cosa è successo?-, gridò disperata una di loro.

– Ma è proprio addormentato? Come si fa a svegliarlo?-, gemette singhiozzante un’altra.

– E’ sempre così bello – disse un’altra ancora.

E così una dietro l’altra passarono a dargli un bacio, con tutto l’amore che provavano per lui. Nonostante questo, però, il principe continuò a dormire.

A questo punto il re cadde nella disperazione; come era possibile? Aveva pensato a tutto, provveduto in ogni modo a proteggerlo; e la disgrazia era ugualmente accaduta; e poi, come mai non si era risvegliato con nessuno di quei baci? Forse che non si fosse innamorato di nessuna di loro? Non erano abbastanza belle per lui?

Con infinito rammarico, le congedò tutte da corte, e mandò i suoi messaggeri alla ricerca di altre fanciulle ancora più belle.

Ognuna di esse si recò nella stanza dove dormiva Astro, ma anche i loro baci furono inutili: il principe continuava a dormire.

Si decise allora a chiamare le Fate del Giardino, ma esse ripeterono :

Il vostro principino dormirà

finché il vero amore incontrerà

che con un bacio lo risveglierà”.

– Vero amore – diceva il re tra sé e sé –, vero amore, ma è possibile? Ho cercato tutte le fanciulle più belle, e mio figlio non si è risvegliato; forse non gli piacciono? Magari preferisce quelle più bruttine?

Mandò dunque in giro i suoi uomini alla ricerca di quelle con cui le fate non erano state proprio generose per bellezza e grazia; anche i loro baci non ebbero successo. Il principe continuava a dormire.

Consultò nuovamente le fate, ma nuovamente ripeterono:

Il vostro principino dormirà

finché il vero amore incontrerà

che con un bacio lo risveglierà”.

– Vedrai – disse la regina – L’amore vero per nostro figlio arriverà, e lo risveglierà dal sonno. Dobbiamo avere pazienza.

– Ma per quanto, moglie mia?

– Dobbiamo avere pazienza.

Passarono anni, anche se il tempo, nel castello, per magia delle fate, si era arrestato. Una notte di tempesta sentirono bussare al portone del castello. Il re in persona andò ad aprire, e si trovò di fronte un giovane.

– Perdonatemi del disturbo, sire – disse con una voce dolce ed elegante – Sono il principe Calindro, figlio di re Celdoro Occhio di Tigre; sono di ritorno verso casa da un lungo viaggio; chiedo ospitalità per questa notte: la tempesta sembra non dare tregua.

– Entrate, giovane principe – rispose il re – Re Celdoro è sempre stato un grande amico, e d’ora in poi sarà per me come un fratello, e voi sarete come un figlio, poiché il mio Astro sta dormendo un sonno da cui nessuno può destarlo. Ma ora su, entrate, credo che abbiate bisogno di un bagno caldo, e di abiti asciutti.

– Grazie per la vostra premura. Sicuramente mio padre saprà come sdebitarsi.

Una volta che si fu lavato e cambiato d’abito, Calindro pose questa domanda al re:

– Sire, raccontatemi di vostro figlio. Perché dorme, perché non si risveglia?

Il re, allora, raccontò della nascita, dei doni delle fate, e del sortilegio. A questo punto Calindro chiese di essere portato nella stanza dove Astro dormiva; il re acconsentì.

Una volta entrato, il giovane si avvicinò al letto, e si inginocchiò: Astro era così bello che Calindro non poté resistere e gli accarezzò i capelli, il viso, e a baciargli le labbra.

A differenza di tutte le altre volte, Astro mosse gli occhi, e sollevò il capo: finalmente aveva ricevuto il bacio del vero amore e si era risvegliato.

Il re, colmo di gioia per il risveglio del figlio, uscì dalla stanza e corse a chiamare la regina, e al suo ritorno con lei trovò i due giovani teneramente abbracciati.

Anche se non era mai accaduto prima nella storia del regno, i sovrani decisero di acconsentire alle nozze del figlio con l’altro principe. Poiché erano sovrani magnanimi, decisero che ciò sarebbe stato possibile anche per i sudditi.

Le nozze furono grandiose; e vissero tutti felici e contenti.

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Posted by on martedì, Gennaio 24, 2017 in Racconti |

Ricordi che bruciano

Ricevo, e volentieri pubblico, un racconto della mia amica Maria Aprile. Hope you like it!

Ci sono ricordi che pesano, non abbastanza da essere rimossi, ma quanto basta perché, ogni volta che ci si accinge a scriverne si rimandi a più tardi, si abbia voglia o necessità di fare altro.

È un episodio di molti anni fa.

Avevo solo quattordici anni, un pomeriggio d’estate salentino in cui la calura asfissiante consiglia di restare a casa, almeno fino alle cinque del pomeriggio, quando le ondate torride emanate dall’asfalto cominciano ad acquetarsi. Ada, la mia amica, non abitava molto lontano, qualche centinaio di metri, proprio vicino alla stazione ferroviaria. Giù da casa mia, duecento metri a destra, proseguendo per il viale alberato e un centinaio d’altri metri a sinistra, un piccolo pezzo isolato, fra due ali di uffici, di fronte solo una palazzina destinata ad abitazione. Non so che età avesse, penso fosse abbastanza giovane, ricordo il colore dell’auto: verde. Mi ha accostata, ha aperto lo sportello e afferrata per un braccio, roteavo inutilmente la borsa di jeans semivuota, tentavo di colpirlo mentre provava a trascinarmi dentro. Ricordo di aver cercato di urlare, un paio di volte, la sensazione opprimente di non riuscire a farlo, finalmente ho sentito la mia voce, una signora si è affacciata al balcone, lui si è allontanato di corsa. Ho proseguito la strada tremante.

Cosa abbia raccontato ad Ada, non lo ricordo.

Per un po’ di mesi mi sono trascinata dietro una borsa piuttosto pesante.

 

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