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Posted by on domenica, Febbraio 10, 2019 in Racconti |

Il mare dentro

Come promesso nel post del 3 febbraio, cominciamo ad aprire il blog ai contributi delle amiche dello storico gruppo di scrittura La Pluma. Oggi propongo questo breve racconto di Carla Manci, che ringrazio di cuore. Buona lettura!

Non tanto tempo fa mi raccontarono una storia. Un uomo di buon cuore dedicava le sue domeniche pomeriggio a un bambino in orfanotrofio. Verificata la sua attitudine gli fu concesso di portarlo a spasso. Dopo aver scoperto che il piccolo non aveva mai visto il mare, ottenne il permesso di portarvelo. La domenica successiva l’uomo si trovò davanti tre pargoli raggianti, tutti pettinati e lucidati a festa, con lo zainetto e il mondo negli occhi. All’uomo non fu concesso di portare tutti e tre i bambini al mare e per non fare torto ad alcuno, non ne portò nessuno. Dal dispiacere, non ebbe più il coraggio di dedicare le sue domeniche per lungo tempo. Probabilmente a quei bambini il mare resterà dentro tutta la vita, sopravvivranno, ma con un senso di deriva costante. Avranno sogni piccoli e paure grandi, naufragheranno spesso… inutilmente. Lasciate a chi ne ha cuore e possibilità l’opportunità di portare i bambini al mare. Lasciate che mantengano promesse, insegnino e diano certezze. La genitorialità non è un diritto: non quella naturale. Semplificate le leggi, aprite le menti, non sarà certo la donna pipistrello – con le tette e con l’uccello – a deturpare la sensibilità di un bambino in istituto. Se un single ne ha mezzi e privilegi, lasciate che prenda con sé un’anima persa. Smettete di indagare le coppie che fanno richiesta di adozione come potenziali mostri, alla stregua di una donna che ha subito violenza poiché indossava jeans aderenti. Finché non verranno spezzate le catene del dolore, che passano inesorabilmente di generazione in generazione, non dureremo a lungo. Fanculo uteri in affitto, in prestito, a chilometro 0. Se tramandare i vostri geni è la priorità, non avete capito molto. Lasciate a chi ne ha privilegio e fortuna la possibilità di portare i bambini al mare. Lasciate che due padri, due madri, single o coppie classiche che hanno amore da dare e promesse da mantenere lo facciano. Adesso, sempre, perché così deve essere. Perché questo è quello che ho avuto dal mio papà e la mia mamma.

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Posted by on sabato, Ottobre 13, 2018 in Racconti, Streghe |

Prima di me

Ricevo, e volentieri pubblico, un racconto della mia amica (e sorella di chiesa) Alessandra Gatti, già autrice dei racconti Sugar Devil (qui pubblicato il 19 e 20 giugno 2016), Il testamento di Tara (15 novembre 2016), La tessitrice di soldatini (27 gennaio 2018), Tre doni d’amore (31 maggio 2018). Il racconto è lungo, ma vi assicuro che ne vale la pena. Buona lettura!

PRIMA DI ME

  1. Abigail Mirren – il prologo

Hereford, Regno Unito, ottobre 1868

Non sento più le gambe. Quando ho messo il piede sul predellino per scendere dal treno, ho sentito il ginocchio destro pesante e il piede instabile, poi ho piegato il ginocchio sinistro e cercato di appoggiare il tallone sinistro sul prato e sono capitombolata nell’erba fresca. Nessun dolore, il mio corpo è leggero, solo le gambe sono immobili. La mia mano è bianca, piccola e lucida, come quella di una ragazzina e una treccia color grano spento sfiora il terreno con me. Cerco di tirare su il busto e mi siedo con le gambe dritte e inerti davanti a me. Nessun dolore nelle mie gambe di pezza, solo il fresco umido dell’erba, lo scroscio del ruscello, la gonna macchiata dalla caduta e l’aria fresca. E’ stata l’ultima volta che ho visto il ruscello.

“E’ stato solo un sogno, Abigail” mormora la voce della mamma, premendomi la pezzuola umida sulla fronte, “E’ il terzo giorno che ha la febbre, se non le passa abbiamo ben poche speranze”, la sento dire a papà Jon. Papà Jon, il reverendo Jonathan Mirren, il secondo marito della mia mamma, l’unico papà che io ricordi. Quello che si è preso cura della giovane vedova Bloom e di me, una bimba già consunta da un male ancora senza nome e ci ha accolte nella sua casa e nella sua chiesa come due uccellini smarriti, quello a cui devo la spensieratezza di questi sedici anni vissuti tra il cottage di pietra e lo stagno, tra i suoi sermoni e la panna con le fragole, tra le risa degli altri bambini e la quiete del mio albero preferito, dove ho trascorso intere estati a ricamare appoggiata al suo alto fusto.

Questa è la mia ultima sera nella casa di mamma Bloom e papà Jon, che non si sono mai arresi. Che si sono aperti alla vita, in barba ai maldicenti e hanno rischiato a mettere al mondo un’altra figlia come me. E che la vita ha premiato con la biondissima e paffuta Jaelle, la mia bambola dagli occhi di cielo, il dispetto alla morte che la vita ha voluto giocare, che vivrà per me e attraverso cui vivrò sotto il sole della Terra. Questa è la mia ultima sera e non mi verrà dato sapere che quel turbine di energia sarà chiamata al cielo poco dopo di me, destino, dalla sua sete di conoscenza, che la spingerà su un ramo troppo alto proprio dell’albero che ha sostenuto la mia breve esistenza. Non ora, lo saprò quando sarò pronta, quando sarò grande e la vita mi avrà già insegnato che nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.

È passata l’ultima notte, ora i miei occhi sono chiusi e le mie braccia conserte sul petto. Il mio corpo indossa la gonna di velluto bordeaux con la cuffietta in tinta e il busto stringe i miei muscoli consumati ed un cuore che non batte più. Sono ormai leggerissima, cammino accanto a tutti loro, sollevandomi di tanto in tanto da terra. Mamma non piange, forse neanche capisce e suoi occhi neri come carboni continuano a fissare il vuoto. Papà, rigando di lacrime i suoi occhiali dorati, chiede aiuto al suo Dio, lo supplica di non abbandonarlo e di dargli una ragione per continuare a testimoniare la sua parola. Jaelle canta “Amazing Grace” perché lei sa che sto solo riposando e  presto mi rivedrà. A te lascio la mia vita, saggia Jaelle e ti confesso di essere stata tremendamente felice in questo piccolo spazio di tempo di questo minuscolo mondo. Sei stata sorella, ma anche figlia, una bimba che non ha partorito la mia pancia, ma la mia forza vitale. Ti amerò sempre e ti ritroverò, promesso! Mamma non cercare di capire, prendilo come un buffo mistero, come quello che dai tuoi capelli corvini siano nate le mie trecce color grano e i boccoli quasi bianchi di Jaelle. Niente di più. Papà credimi, la vita ci farà incontrare ancora e, fidati, non mi riconoscerai e sarà meglio così. Sono felice, tremendamente felice.

 

 

  1. Wanda Enriquez – la storia

Cleveland (Ohio, USA), maggio 1967

Sento di nuovo le gambe. Piego il ginocchio sinistro e metto il piede sul predellino e i muscoli riprendono a contrarsi. Con un balzo, appoggio il tallone destro sul pavimento del treno, giusto un secondo prima che le porte si chiudano e si riparta.

“Al tre, quando sarà risalita sul treno. si risveglierà perfettamente cosciente e riposata”, mi accarezza la voce dell’ipnotista e, dolcemente, ritorno allo stato di coscienza. Poi mi risveglio di nuovo, questa volta di botto, il sogno nel sogno, come lo chiamano gli psicanalisti. Ritrovo la mia mano, magra e nodosa, ma liscia come seta, le mie braccia e il mio viso perfettamente glabri e sfioro con le dita le ciglia finte, che domani l’infermiera mi dovrà togliere prima dell’intervento. Hugo si era premurato di informare tutto il personale di chiamarmi “signora Wanda”, a prescindere dai dati sulla cartella perché mi ero conquistata quel nome con le unghie e con i denti, così come che mi sottoponessi a questa bizzarra seduta ipnotica. Domani Hugo accarezzerà per l’ultima volta il mio cuore, poi compirà l’azione che chiuderà il nostro cerchio con l’umanità.

“Recluta Heinrich Wander a rapporto!”. Dio, fa’ che sia un sogno, ma non che sia l’ultimo di questa ultima notte della mia vita. Fai che quel viso allo specchio non sia l’ultima immagine dei miei occhi, che il mio ultimo ricordo sia la mia adorata Perla, il mio amato Hugo o anche quell’improbabile ragazzina inglese che l’ipnotista ha tirato fuori dal cilindro del mio subconscio.

Lo specchio, impietoso, sembrò non udire i miei lamenti e mi restituì l’immagine di un ventenne efebico, lungo e magro, con i capelli color grano. La divisa grigio fumo, che mi calzava perfettamente sulla spalla destra, mi cadeva sul braccio sinistro volutamente inerte, mentre la mano destra tentava di coprire il “sole malato” cucito appena sotto il bicipite del braccio che rifiutava di muoversi. “Recluta Wander!” tuonò di nuovo la voce e in pochi secondi dovetti nascondere Perla tra la rete e il materasso, indossare il berretto e lasciare in bella mostra quell’orrendo simbolo sulla mia spalla sinistra. Quella sarebbe stata la notte della fuga da Monaco, io e Perla avremmo viaggiato sotto copertura fino a Porto e poi preso una nave per Buenos Aires. Ce l’avremmo fatta, solo io e lei. Ora dovevo andare, giurare fedeltà a Satana ancora una volta, una volta e mai più.

Perla era ebrea. Perla mi amava, anch’io l’amavo, ma non allo stesso modo. Perla aveva accettato il fatto che io non fossi un vero uomo, non come lo intendeva lei. Io amavo – e invidiavo – i suoi capelli corvini e compatti, le sue ciglia folte, i carboni ardenti dei suoi occhi, la sua pelle color bronzo e le sue lunghe gambe. Non potevo sopportare che i commilitoni approfittassero di lei, perdendosi nelle sue carni per poi definire il suo essere “discendente dei topi”. Lei ha sempre saputo che io non avrei potuto amarla “in quel modo”. Aveva capito fin da subito che ero una fragile ragazza sbagliata, perché nata nel corpo di un giovane soldato ariano. Un giovane, soldato e ariano. Tutto sbagliato. Ma aveva accettato la sincera amicizia che le avevo offerto e, mentre i commilitoni mi immaginavano a nutrirmi del suo corpo per poi sputare sulla sua anima, lei mi truccava e mi vestiva con i suoi abiti, complimentandosi poi per il risultato con il suo buffo accento polacco. Era l’unica vera amica che avevo, l’unica che potessi desiderare.

Quel giorno non era il mio turno per i suoi servizi e la sua presenza in camera mia avrebbe destato sospetti. L’incavo che la rete, che aveva ormai perso elasticità, creava nel centro del materasso era un ottimo nascondiglio. Andai a rapporto, tornai e la ritrovai sotto il materasso come l’avevo lasciata. Però si era addormentata. Per sempre. Con il collo spezzato. Fuggii quella notte stessa, con lei e la morte nel cuore.

L’ultima notte della mia vita avrei però voluto sognarla viva, mentre ridevamo, truccate con il suo rossetto vermiglio e la polvere per le guance e le raccontavo che un giorno sarei stata una donna vera, avremmo trovato due meravigliosi mariti argentini e avremmo dimenticato il freddo del cuore e l’inverno della ragione che aveva avvolto l’Europa.

A Buenos Aires ottenni un inquietante passaporto che riportava il nome di Mr. Henry Wonder, assurda trascrizione anglosassone del mio nome di nascita, nato a Hereford, Regno Unito, nel 1925 e la foto di un’efebica creatura ventenne – ne avevo in realtà quasi 25 – abbastanza credibile da presentarsi come Miss Wanda Enriquez quando i documenti non erano richiesti. E neanche ciò di cui la natura mi aveva indebitamente dotato non costituì quasi mai un problema per i pochi uomini a cui mi avvicinai senza eccessivo calore umano, finché nella mia vita fu recapitato un secondo immenso dono: Hugo.

Il dottor Hugo Romero Blanco era un medico visionario, nato in una famiglia poverissima e voracemente appassionato di scienza, che aveva intrapreso gli studi di medicina, specializzandosi in cardiochirurgia contando solo sulle proprie forze, quando il “mal di cuore”, qualunque cosa significasse, era ancora presagio di morte e incurabilità. Aveva commesso delle impudenze, mai imprudenze, tuttavia sufficienti a renderlo inviso alla comunità medica argentina, ancora agli albori per le sue teorie pionieristiche. Aveva invece, proprio in virtù della sua audacia, attirato l’attenzione di un notorio centro cardiologico statunitense, che aveva iniziato ad avvalersi della sua collaborazione agli inizi degli anni ’60.

Non so come, ma s’innamorò follemente di me, lui che, pur non brillando di avvenenza, aveva conquistato donne ben più titolate di questo appellativo – solo ai miei occhi, mi rassicurava lui – grazie al fascino indiscutibile di una mente eccelsa.  Io lo amavo con tutta me stessa, ma neanche questa benedizione della vita – ormai avevo passato i quaranta – riusciva a togliermi il germe di morte che avevo involontariamente seminato in gioventù. E fu proprio quel seme maledetto a suggerirmi come avrei potuto restituire il maltolto all’umanità.

Hugo mi parlava con grande eccitazione del fatto che un giorno sarebbe stato possibile trapiantare il cuore di una persona, purché fosse appena deceduta, su un’altra persona il cui cuore funzionava male. Gli Stati Uniti erano in corsa contro il tempo con il Sudafrica per la cardiochirurgia, esattamente come lo erano con la Russia per la conquista dello spazio. Ma ci voleva un candidato donatore. Sano, morto da pochissimo senza danni cardiaci e compatibile con la candidata ricevente, che l’equipe di Cleveland aveva appena individuato.

Il mio cuore in una donna vera, pensavo e il pensiero si faceva sempre più persistente. Tentai di convincere me stessa che era assurdo. Poi che era assurdo il contrario. E, ultimo, ma non ultimo, avrei dovuto convincere Hugo. Non fu un’impresa semplice, ma alla fine fece sua l’idea che questa folle azione dell’uomo che ancora una volta stava tentando di sostituirsi a Dio fosse l’unica che mi avrebbe permesso di pagare il mio debito con l’umanità. L’equipe di Cleveland non si lasciò scappare l’occasione: un medico avrebbe dichiarato la mia morte accidentale e il mio cuore sarebbe stato trapiantato nel petto della sconosciuta, una giovane donna sbirciata inopinatamente da dietro una tenda, le occhiaie bluastre che celavano due occhi di cielo e la cuffietta da cui spuntavano ciuffi bianchissimi e sottili, come quelli di una bambina, a cui, anche se per un tempo brevissimo, avrei donato la vita. La vita che avevo sottratto a Perla. E a milioni di donne come lei, figlie che non avevo mai partorito, ma di cui finalmente sarei stata madre.

Sappi che ti ho amato, Hugo e ti amerò oltre la mia vita. Guardo la cartella clinica con il nome Wonder, H. Forse non è un caso e domani compirai il miracolo. Come mi dici tu, guardandomi da dietro i tuoi occhiali dorati: “I love you, my wonder girl”. Yo también te quiero, mio milagro.

  1. Alberta Tremaine – l’epilogo

Milano, ottobre 2018

“Al tre, salirà l’ultimo gradino e si risveglierà perfettamente cosciente e riposata”. Col cazzo. Ottanta euro per una seduta in cui il cosiddetto ipnotista regressivo ha voluto farmi credere di essere la reincarnazione di un’adolescente inglese moribonda e poi di una psicopatica argentina di mezz’età. Un’altra delle bizzarre idee di Leo, dopo che mi ha sorpresa una volta di troppo a svegliarmi di soprassalto per un sogno turbolento. Ma anche no, potevo andare a mangiare il sushi con Leo e Sharon per la stessa cifra e sicuramente ci divertivamo molto di più. Pago e ringrazio, tenendo già il pollice sul pulsante automatico dell’ombrello in vista della strada da attraversare sotto la pioggia battente.

Sharon fa tintinnare le chiavi dell’auto e mi strappa un sorriso: ha passato anche l’esame della patente! Sharon Tremaine, incredibile creatura! Nei tuoi diciannove anni e nel tuo metro e ventotto per ventisei chili hai scalato vette insospettabili, a cui altre persone, nate con molte più frecce al loro arco, possono solo sognare di avvicinarsi in una vita intera. Entro di corsa sul sedile posteriore dal lato del guidatore e la guardo infilare la chiave nel cruscotto con la sua mano bianchissima e minuscola, sfiorando poi gli altri comandi al volante con la delicatezza di un pianista sui tasti preziosi di un antico strumento. Il sedile rialzato la fa percepire come un’adolescente, come del resto tutto di lei trae sorprendentemente in inganno: l’aspetto minutissimo, la vocina flebile e acuta, i capelli sottili e i tratti del viso da bambola di porcellana. E il suo dono è proprio quello di stupire del fatto che, sotto quelle apparenze, si celi una donna forte e straordinariamente intelligente.

Ripenso all’incontro con lei e Leo, nove anni prima, in un giorno altrettanto piovoso, nei trafficati corridoi dell’aeroporto di Amsterdam. Ero seduta in uno dei tanti caffè, non ricordo neanche quale e lei mi rovesciò sulla borsa un cono gelato troppo grande per le sue manine, e mi colpì il suo “I apologize, madam”, fin troppo sobrio e forbito per la bimba di forse cinque anni che appariva, nonostante ne avesse appena compiuti il doppio. Leonard Tremaine, geologo canadese e padre single per una vedovanza precoce, stava raggiungendo Paestum per uno scavo e sarebbe transitato da Milano per conto della ditta che lo aveva ingaggiato. Rise quando mi presentai perché mi chiamavo Alberta, come lo Stato in cui lui era cresciuto e il mio cognome di nascita, Gatti, era esilarante per un anglofono: spergiurò che nel suo paese nessuno si sarebbe mai chiamato Cats e la cosa, non so perché, ma non mi stupì. Da quel giorno non ci lasciammo più e neanche il fatto che mi portò in dote il cognome Tremaine, matrigna e una figlia non nata da me, mi stupì.

L’auto è riscaldata e Leo mi accoglie in un abbraccio e il suo “Weilà bela toosa” nel suo inquietante accento milanese condito in salsa d’acero. Dal sedile accanto al guidatore fa capolino Mila, la bella Milagros, con la sua lunga chioma nera e compatta, a volte talmente folta che deve scostarsela dal viso per mostrare i suoi profondi occhi neri. Non avrebbe potuto essere più diversa da Sharon, con le sue gambe lunghe e la sua pelle di bronzo, la voce calda dall’accento latino e i colori intensi dei suoi abiti. Ma sono due piccoli geni dei numeri, che si sono scoperti a vicenda sui banchi dell’università un anno prima e da allora si amano come poche altre coppie che io abbia mai conosciuto. Eppure oggi c’è qualcosa che non avevo mai notato prima. I boccoli leggeri e biondissimi di Sharon e la sua sorprendente vitalità, le iridi color carbone di Mila e l’intensità malinconica del suo sguardo mi sono familiari, troppo familiari per essere mere coincidenze.

Leo coglie il mio turbamento e mi volta delicatamente il viso per baciarmi, passando la mano tra i miei capelli dritti e forti, un tempo color grano e ora striati di grigio. Per un attimo, i miei occhi incrociano i suoi dietro gli occhiali dorati che gli scivolano dal naso. E’ tutto assurdo, penso, mentre sento le sue labbra sfiorare le mie e scorgo la mano bruna, lunga e affusolata di Mila con le unghie smaltate di fucsia posarsi delicatamente su quella piccola e bianca di Sharon con le minuscole unghie azzurro perlato.

“Vamos, mio amor” echeggia la voce di Mila. Sharon mette in moto e, tutto d’un tratto, comprendo che, anche se tutto avesse un senso, niente avrebbe motivo di legarci al passato.

Io e Leo, a Dio piacendo, avremo ancora molti anni davanti a noi. Sharon è ormai una donna, si sta facendo largo nella strada della vita e un giorno diventerà madre anche lei, ci scommetto. Magari di figli con le gambe lunghe e la pelle color bronzo, che non saranno nati dalla sua pancia, come lei non è nata dalla mia, ma che la chiameranno mamma Sharon in tre lingue e che lei farà filare ancor più severamente di mamma Mila.

Il cerchio, ovunque si sia aperto, può considerarsi chiuso. Ora inizia la nostra vera vita, senza debiti, né crediti. Da oggi, si paga in contanti.

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Posted by on giovedì, Maggio 31, 2018 in Racconti |

Tre doni d’amore

Ricevo, e volentieri pubblico, un racconto della mia amica (e sorella di chiesa) Alessandra Gatti, già autrice dei racconti Sugar Devil (qui pubblicato il 19 e 20 giugno 2016), Il testamento di Tara (pubblicato il 15 novembre 2016) e La tessitrice di soldatini (pubblivcato il 27 gennaio 2018) . Buona lettura!

In un tempo lontano, quando gli animali erano dei, alcuni di loro sceglievano di dimorare sulla Terra in sembianze antropomorfe, confondendosi volutamente tra gli umani.

Non avevano l’aspetto glorioso delle divinità mitologiche, né i loro vistosi poteri, né tantomeno la temuta hybris dei poemi omerici o delle saghe norrene. Nascevano, crescevano, amavano, soffrivano e morivano esattamente come i loro fratelli sapiens, anche se si dice che scegliessero prevalentemente di restare in disparte, solidarizzando con gli umani per il tempo necessario a compiere una missione e, ancor più raramente, rivelandosi e unendosi ai pochissimi che, per ragioni note solo a loro, avrebbero meritato di condividere uno sprazzo del loro infinito. Apparentemente identici agli abitanti terrestri, si distinguevano ad un occhio attento solo per lo sguardo vigile e benevolo, depositario di una saggezza millenaria e di una bontà non di questo mondo.

La leonessa avanzava incerta sulle gambe di una quieta donna di mezza età, chiedendosi ad ogni passo se il suo amato avesse fatto la scelta giusta riguardo a lei. Il suo amato era ormai vecchio e stanco, si sorreggeva a lei rivolgendole, di tanto in tanto, sguardi di devozione fedele, anche se l’età e la malattia l’avevano portato a fare affidamento a lei più come ad una dea madre che come la ninfa che lei avrebbe desiderato. Lei, per contro, aveva vissuto lustri di vita terrestre senza neanche immaginare l’esistenza di queste creature, scoprendosi una di loro solo grazie all’incontro con il canuto leone dagli occhi di smeraldo, ormai in età matura. In pubblico si mostravano come una riservata coppia di eccentrici e, solo nel giardino della loro anima, si prendevano la libertà di tornare felicemente felini.

Il leone glielo aveva preannunciato: sarebbero stati insieme per poco, poi sarebbe giunto il giorno in cui il suo corpo materiale sarebbe collassato e di lui sarebbe rimasto solo il cuore azzurro. La leonessa ne era cosciente, ma sperava, ad ogni risveglio, di non cogliere sfumature di cielo nella chioma candida del suo amato, né di intravvedere venuzze sospette che, diramandosi come rivoli fuori argine sulla pelle, rivelassero l’imminente dipartita dell’unica creatura che avesse mai veramente amato.

Quel giorno arrivò all’improvviso, al culmine di una passeggiata nella vecchia città, al cui confine sorgeva il Mondo Futuro. Non fu un processo graduale: nello spazio di un attimo, il leone assunse la magnifica sembianza felina della sua anima, il suo pelo candido si tinse d’azzurro e il suo corpo iniziò ad apparire sempre più fragile. La donna, d’istinto, infranse ogni regola concordata, attraversò il confine con il Mondo Futuro e si lanciò alla richiesta di aiuto ad un riparatore di droni, mettendo a rischio la propria anima e quella dell’amato. Il leone aveva però previsto anche questo, arruolando un Guardiano di Anime, un giovane lupo incarnato in un mastodontico uomo con capelli e baffi biondissimi, che la bloccò all’ingresso dell’officina con la proposta di un patto: “Se il seme nella terra non muore, non darà frutto. A te la scelta: salvare il corpo del tuo amato fino alla fine della vita terrena o lasciarlo andare e accedere alla vita eterna”. La donna non ebbe dubbi: avvolse il corpo dell’amato in una candida tela, cantando per lui le canzoni d’amore più struggenti e lo lasciò dissolversi in una chiazza blu.

Stava ancora asciugandosi gli occhi dalle lacrime, quando sentì il cuore scalpitare in modo aritmico e violento, come se un altro avesse iniziato a battergli accanto e faticasse a sincronizzarsi con il suo. Guardò l’involto, la chiazza azzurra era sparita e, al suo posto, qualcosa si muoveva dentro: lo aprì vide e tre leonesse bianche in miniatura con gli occhi azzurro chiarissimo, che si dimenavano e miagolavano rumorosamente, calmandosi solo al tocco delle sue mani.

Le leonesse erano tre copie quasi identiche del suo amato, non nelle spoglie dell’anziano signore che il mondo conosceva, ma in quelle gloriose di candido leone. Poi scomparvero, così com’erano apparse.

Una voce interiore le parlò: “hai scelto col cuore e il tuo cuore sarà ricompensato”. Per diciassette giorni, la leonessa non percepì più traccia della voce e si lasciò andare alla disperazione. Smise di mangiare, di dormire e vagò senza meta e senza rivolgere la parola ad alcuno, finché, al diciassettesimo giorno, la donna percepì di nuovo il cuore dell’amato battere nel petto, questa volta all’unisono con il suo. Il cuore azzurro le suggerì di lasciare il luogo senza tempo e trasferirsi nel Mondo Futuro, non facendo parola con alcuno del proprio passato. Appena giunta, rivide l’immagine di una delle leonesse in quello che a lei appariva uno schermo magico. Notò subito che un occhio era di un celeste quasi trasparente, come i suoi e l’altro color smeraldo, come quelli del suo amato. Fu solo a questo punto che, nell’anima, udì di nuovo l’adorata voce del leone: “Mia amata, hai accettato la strada che ti ho indicato e ora non potrai più tornare indietro. Prima di lasciare questa terra, vi ho piantato i semi di tre doni, che dovrai trovare, coltivare e difendere a costo della vita. il primo dono è il cuore di smeraldo del conforto divino, che spanderai a piene mani con chi soffre nel corpo e nell’anima. Pochi capiranno, i più prenderanno la tua energia e ti abbandoneranno quando l’avrai esaurita. Il secondo è il cuore d’oro della gioia: so già che vorrai profonderla incondizionatamente e, per questo, la tua sofferenza sarà tanto grande quanto la tua generosità. Ti derideranno e tenteranno di farti passare per folle, perché, credimi, l’uomo è in grado di tollerare qualsiasi cosa, tranne la felicità. Per un attimo ci riusciranno e ruberanno un pezzo della tua anima. Lasciala loro, quando avrai completato la missione, quel pezzo non ti servirà più. Il terzo dono è il cuore di porpora della rinascita e della vita eterna. Lo riceverai al decimo lustro, quando sarai pronta di comprenderlo e usare tutto il suo potere senza più bruciarti. Fino ad allora, io sarò con te.”

La donna accolse il primo dono, recato dalla leonessa con l’occhio di smeraldo. Profuse energia, regalando conforto ad ogni creatura in difficoltà, finché perse il sonno, il suo corpo si riempì di dolore fino a deformarsi e, quando ogni energia fu esaurita, si chiuse nel buio del giardino, ormai vuoto e appassito. Arrivò il momento del secondo dono, questa volta dalle mani di una vivace felina dagli occhi di ghiaccio. Rivide il giardino fiorire, e le sembrò perfino troppo bello che una missione consistesse nel dispensare felicità. Ma, come preannunciato,  pochi furono in grado di tollerarla, i più l’additarono come pazza e lei finì, forse per debolezza, forse per non tradire la propria missione, per lasciarsi rubare l’anima.  Fu allora che la terza leonessa, un essere apparentemente fragile con gli occhi azzurro intenso, bussò alla porta di quello che restava del suo spirito con il dono ristoratore di ogni perdita. All’inizio quasi non la riconobbe. Poi, lentamente, tornarono i ricordi e vide che il giardino dell’anima non era mai appassito, ma erano i suoi sensi che avevano, per un tratto, perso la capacità di vedere i colori e sentire i profumi dei fiori. Il leone le parlò per un’ultima volta: era fiero di lei e, da quel giorno, non avrebbero più avuto bisogno di comunicare, perché erano finalmente diventati una cosa sola. Non sarebbe più stato con lei, ma in lei e lei in lui. L’anima che gli umani le avevano rubato in Terra sarebbe diventata immortale e avrebbe dimorato in lui nel tempo dell’eternità. E lui avrebbe lavorato nel Mondo Futuro nel corpo risanato di lei.

Molte tranquille e anonime signore vivono oggi tra gli umani del Mondo Futuro con i loro amati felini e questa potrebbe essere una delle tante leggende dall’origine perduta. Ma se un giorno incontrerete una donna solitaria e schiva con tre grandi gatte bianche, abbiate la curiosità di guardarle negli occhi: il vostro cuore potrebbe riconoscervi il conforto, la gioia e la vita che rinasce in un mare di sguardi azzurri. Con l’eccezione di un’iride verde smeraldo: i più la vedranno come un’affascinante eterocromia; qualcuno, magari, scoverà la porta in cui ogni umano, se lo desidera, può ritrovare la propria anima divina.

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Posted by on domenica, Gennaio 28, 2018 in Racconti | 1 comment

Lettera a una soprano

Cara Giacinta, ti dico “cara” anche se tu sarai incazzata fradicia con me, perché ti ho fatto il bidone al nostro appuntamento. Mi sono nascosta e ti ho osservata alzare il tuo nasino alla francese con aria seccata, mentre i minuti scorrevano e io non arrivavo. Invece ero lì, acquattata dietro l’angolo, ed è stato divertente vederti diventare prima nervosa e alla fine furiosa. Hai resistito mezz’ora prima di andartene, è stata la mia rivincita dopo mesi di inutili promesse di rimpatriate scambiate su Messenger. Occhèi: al liceo eravamo migliori amiche, ma poi abbiamo imboccato strade diverse. Tu hai scelto di stare a casa, te lo potevi permettere. Io ho dovuto lavorare, perché soldi non ce n’erano e addio università. Non mi è parso vero vincere il concorso in banca, anche perché mi sarebbe stato impossibile studiare Fisica. Pazienza, sono diventata un’ottima contabile, e quindi le scienze “dure” alla fine non sono servite. Tu invece l’università l’hai frequentata: due anni di Lingue ma era troppo difficile, e sei passata a Lettere. Ma alla fine ti sei stancata lo stesso. Ti sei sposata con marcello, con cui stavi insieme da una vita, e tanto valeva cominciare a fare la moglie e la madre. Io sono stata più inquieta: d’inverno in banca, nelle ferie in Inghilterra e in America per imparare l’inglese e fare una carriere che mi sono meritata. Tu hai avuto due belle bambine, io un figlio maschio dopo i trent’anni. Ho sempre seguito il tuo percorso di cantante lirica: leggevo sui giornali locali dei tuoi recital e me ne compiacevo. Mi sono detta: “ecco Giacinta finalmente realizzata, sta facendo una cosa in cui crede”. Quando timidamente, un anno fa, mi hai chiesto l’amicizia su Facebook, sono stata contenta. Avevamo fatto vite diverse, e abbiamo sempre avuto caratteri opposti. ma non scorderò mai quanto mi sei stata vicina a diciassette anni, quando mio padre è morto e mia madre, insieme ai miei due fratelli, ha dovuto tirare avanti la baracca vendendo biancheria di lusso nei mercatini rionali. Ma la Giacinta e la Manuela di un tempo non ci sono più. Ho cercato di rincontrarti in questo anno, combinando mille appuntamenti. Quando finalmente avremmo potuto incontrarci tiravi fuori un evento di beneficenza, una zia da andare a trovare, una cena di lavoro di tuo marito. Il colmo è stato quando mi hai proposto di vederci a un tuo recital. Mi hai scritto: “Senti, vieni al concerto. Costa solo venti euro, ma possiamo parlare cinque minuti prima che inizi, se riesci ad arrivare in anticipo.” Ti meriti un bel vaffa, Giacinta, se è questo ciò che mi proponi dopo dieci anni, è l’unica risposta. meno male che alla fine sono riuscita a strapparti l’appuntamento davanti al Caffè Azalea per l’altro giorno, facendoti aspettare invano. Anche perché, a dirla tutta, a me della musica lirica non me ne è mai fregato niente, tanto meno di andare ad ascolarla in teatrini situati in culo al mondo, e se pensi di poterti comportare con me con un tale distacco dopo dieci anni di assenza, hai sbagliato di grosso. Ti auguro comunque ogni bene in nome di quello che siamo state,

Manuela

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Posted by on sabato, Gennaio 27, 2018 in Racconti, Streghe |

La tessitrice di soldatini

Ricevo, e volentieri pubblico, un racconto della mia amica (e sorella di chiesa) Alessandra Gatti, già autrice del racconto Sugar Devil (qui pubblicato il 19 e 20 giugno 2016) e di Il testamento di Tara (pubblicato il 15 novembre 2016) . Buona lettura!

Ti vidi vicino al muro, attorniata dai tuoi soldatini, le lacrime di ghiaccio nell’ardore del fuoco e il mio cuore si gelò come neve.

Tuo marito era bellissimo, osannato da donne e uomini. Mi attendeva in cucina, appoggiato al lavandino e, quando mi avvicinai abbastanza per incontrare il suo sguardo mesmerico, mi sfiorò la spalla con un braccio, come se sapesse che il suo tocco era grazia concessa a pochi e un abbraccio intero troppo intenso da reggere per un mortale. Lui era il dio di quel set surreale, la star incontrastata e tu, tra il muro e il divano, vivevi per i tuoi soldatini, prevenivi ogni loro gesto, ti premuravi che non restassero mai senza cibo, conforto e calore. Ma io vedevo te.

Nero è il primo colore che mi riempì gli occhi di te, il velluto morbido che scalda il cuore e ti fa sentire in un caldo nido, il buio ovattato del sonno ristoratore, il cielo in attesa delle stelle e dei sogni. Allungai una mano e tu accettasti una carezza, sottraendoti all’abbraccio. Quello no, era per i soldatini. Io ti guardavo, mi specchiavo in te, in qualche modo ti amavo già come una figlia tessuta per me. Non mi aveva ancora colpita la tua bellezza, per quanto fosse insolito il bruno del tuo viso circondato dalla tua chioma di seta castana striata di biondo naturale, frutto di chissà quale amore così libero in natura e così condannato tra gli uomini. Mi aveva stregata la consapevole bontà del tuo animo, la dedizione ai tuoi adorati soldatini, l’abnegazione ad ogni parte di te che non fosse in funzione dei loro bisogni e desideri. “Se riuscissi a farmi amare da te” pensai “forse riuscirei a farmi amare anche da me stessa”. Ma la vita doveva ancora proseguire senza che potessi esprimere il mio contorto istinto materno e, come da copione, contrattai col tuo abbagliante marito l’addestramento di una cadetta silenziosa, candida e mesmerica come lui, ma con i tuoi stessi indimenticabili tratti. Sarei venuta a prenderla da lì a due mesi.

La seconda volta t’incontrai d’estate, il muro di casa aveva lasciato spazio al muretto del giardino, il divano di pelle mora a quello di erba arsa, i soldatini alle tue sorelle di sangue e di ventura. Distese al sole, in attesa di un pensiero d’amore che occupasse le vostre giornate, d’estate tornavate bambine ed era una gioia vedervi rincorrere su e giù per i pendii, arrampicarvi sugli alberi, litigare per un filo d’erba e poi addormentarvi alla luce di velluto della luna. Tuo marito mi consegnò la prima cadetta, cui sarebbe seguita un’altra, che continuai a crescere nell’amore nel tuo nome. Erano cadette speciali, mi disse, comprendevano il cuore altrui senza bisogno di parlare. Quanto promesso, non venne mai meno.

Tu continuavi a dar luce a meravigliosi soldatini di candido cotone, di seta rossa, di velluto nero, li tessevi finché non erano perfetti per partire e qualche volta li affidavi a me per condurli oltre il giardino, oltre il confine, oltre l’oceano, ma mai oltre il bene che avevano sperimentato tra le tue braccia. E io pensavo a te ogni volta, chiedendomi se avessi potuto ricambiare il tuo dono della vita, donandoti vita per te.

Finché venne l’ultimo degli inverni, il ghiaccio si fece più fitto, il mio cuore più fragile, il tuo velluto più rado. Il momento era arrivato. Gli ultimi soldatini erano partiti, tu sapevi che non ce ne sarebbero stati altri e attendevi sul divano di pelle mora. Avevi sistemato tutto, trovato nuove giovani mogli per il tuo amato marito e riposto il telaio nelle loro mani, consegnando loro ogni gesto d’amore per i futuri soldatini. Avremmo preso un’astronave color fuoco e un sottomarino giallo sole. Poi saremmo arrivate nel resto della tua vita terrena. Ti attendevano tutti da tempo: la casetta color legno, gli alberi sotto il tetto, un divano rosso come un cadetto di seta, due delle tue candide soldatesse e una mamma senza telaio. Che tesseva parole con le dita per loro e avrebbe imparato a lasciar tracciare la trama dal cuore. Per te.

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Posted by on domenica, Gennaio 21, 2018 in Racconti |

Lettera di un amministratore delegato

Cara Giorgia, non ti scrivo in veste di amministratore delegato, né di vecchio amico di famiglia, ma in veste di amante. Platonicissimo amante, seguace di Pascal e della raison du coeur. Non ce lo siamo mai detto quest’amore, ce lo siamo scambiato con gli sguardi. Il primo è stato il tuo, ed era implorante. Sei venuta da me in un grigio pomeriggio di novembre a dirmi che tuo marito, quello con cui giocavo a tennis tutti i sabati, stava definitivamente affossando l’azienda di famiglia con scelte sbagliate e decisioni scriteriate del suo cervello bacato. Proprio così. Tu che sei una persona raffinata per natura, senza affettazione, hai usato quest’espressione, che in bocca a un’altra donna sarebbe sembrata volgare. E mentre parlavi, io immaginavo le cose alla lettera: il cervello di Francesco ripieno di vermi schifosi, bacato e bucato, visto che non lo utilizzava. Io ho sollevato il telefono e ho parlato con tuo padre, che mi ha dato la conferma di quello che succedeva con aperta disperazione. Poi ho fatto un’altra telefonata, per me molto rischiosa. Ho parlato col capo del mio studio, e ho chiesto un anno di aspettativa. Temevo il licenziamento o una porta in faccia, invece ha capito e me l’ha concesso. Poi è stato un anno di registri contabili, di riunioni frenetiche fino a mezzanotte. Ci sono stati anche un paio di viaggi all’estero, per tentare una mediazione con chi, alla fine e per fortuna, ci ha dato credito. A chi pensa che tutto sia stato dovuto alla mia bravura vorrei dire che non è così. Io, che sono profondamente credente, ma non ho il tempo materiale di andare in chiesa, confesso che ho pregato e sperato che andasse tutto bene per Francesco, per i tuoi figli, per tuo padre, per i vostri dipendenti, ma soprattutto per te, che stai al centro del mio cuore. Per quegli sguardi fiduciosi che ci lanciavamo quando tornavi dal tuo lavoro part-time in quella piccola casa editrice, e di cui chiacchierano molto le signore della nostra cerchia di amicizie. Per quelle pause del tè delle cinque, mentre lavoravo nello studio di casa tua, e per i biscotti che dividevamo insieme, parlando amabilmente di cultura e di arte. Eri una boccata di aria fresca, Giorgia. Facevi risplendere la parte migliore di me. E quelle mezz’ore divise ad amarci con gli occhi, interrotte a volte dai tuoi figli che volevano un aiuto nei compiti, sono la cosa più preziosa di questo faticosissimo anno di lavoro. Lavoro che, per fortuna, ha risollevato le sorte della tua azienda e ha riscaldato, con la tua presenza, il mio cuore di filosofo mancato. Ti amo, Giorgia, e continuerò ad amrti per il resto dei miei giorni. Ma non farò nessun gesto, non voglio rovinare questo amore purissimo, in questa crisi morale da basso impero che ci travolge tutti.

Sempre tuo nel cuore,

Raffaele

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