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Posted by on domenica, Dicembre 15, 2019 in New York |

In fila per te

Ricorderete che a Los Angeles (vedi il post del 16 giugno) qualcuno si è inventato la professione di People Walker, per aiutare i locali a passeggiare a piedi.

L’uomo che camminava la gente

New York, evidentemente, non vuole essere da meno nell’invenzione di nuove professionalità, così l’altro ieri Arianna, a spasso per Manhattan, ha ricevuto il biglietto da visita di una valorosa start-up chiamata SAME OLE LINE DUDES, più o meno QUELLI DELLA STESSA VECCHIA FILA.

Di che si occupano costoro? Semplice ma geniale: fanno la fila al posto di locali e turisti che, così, nel frattempo, possono fare altro. La tariffa è di 45 dollari minimo (per le prime due ore), più 10 addizionali per ogni successiva mezz’ora. Sul retro vengono riportati, a mo’ d’esempio, i possibili ambiti in cui si può beneficiare di questo servizio. Uno solo di questi (visa / passports) è tristemente burocratico (molti di noi pagherebbero volentieri qualcuno per far la fila al nostro posto in posta, o alla ASL). Tutti gli altri riguardano l’intrattenimento, sia esso culturale, mangereccio o puramente frivolo. C’è Hamilton, il musical il cui biglietto costa come uno stipendio mensile; gli spettacoli di Broadway in generale (sia per i biglietti dell’ultimo minuto che per le cancellazioni); Shakespeare in the Park, la rassegna teatrale estiva a Central Park (la maggioranza degli spettacoli sono gratuiti ma l’ordalia per ottenere i biglietti è leggendaria). Ci sono ristoranti, bar, birrerie, Lucali’s (che è una pizzeria di Brooklyn), l’inspiegabile Cronut (non è un locale, ma un dolce ibrido che unisce le virtù del croissant e del donut). Fan la fila per te alle audizioni, ai concerti, agli appostamenti per incontrare le celebrità e strappar loro autografi. Poi c’è il misterioso Supreme Drops (letteralmente “gocce supreme” o “lanci supremi”).  A quanto pare, invece, un drop è un “rilascio controllato di nuovi prodotti”, e la Supreme è un “brand di culto di streetwear”, praticamente una marca di magliette e felpe molto di moda (di cui non sospettavo l’esistenza fino all’altro giorno). In Italia, il principale testimonial delle felpe Supreme non è Colui-che-non-deve-essere-nominato (alias Capitan Felpa), bensì il rapper Fedez, noto anche come marito dell’illustre influencer Chiara Ferragni. Avete letto di quando la gente fa la fila dal giorno prima perché il mattino presto uscirà il tale nuovo prodotto (tecnologico o di vestiario)? Beh, se quelli come Same Ole Line Dudes prendono piede, la fila tutta la notte la faranno dei proletari bisognosi di reddito, mentre i fanatici delle grandi marche dormiranno tranquilli nei loro candidi lettucci.

Probabilmente, un connubio così avanzato tra mercato del lavoro postmoderno e antica arte di arrangiarsi poteva nascere solo a New York. O magari a Napoli (che non a caso è alla stessa latitudine).

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Posted by on domenica, Novembre 10, 2019 in New York, Wurstel |

Cretini a sobbalzi

Aprile 1995, all’ottavo mese di gravidanza mi ritaglio un pomeriggio per andare al cinema.  Scelgo di andare a vedere Sostiene Pereira (di Faenza, tratto dall’omonimo libro di Tabucchi). Il cinema era il President di Largo Augusto, ora trasformato in showroom di un qualche stilista (ma la facciata è rimasta, ingannando così il passeggiatore distratto). Primo spettacolo della domenica pomeriggio, poca gente.  Tra i pochi c’era un tizio trasandato, grosso, sulla cinquantina, che era seduto tre file davanti a me e, vedendomi entrare, comincia a guardarmi in modo lubrico. Pensando – come da dettami del patriarcato – che ogni donna sola, ancorché col pancione, sia a disposizione del maschio in caccia, il tizio comincia ad avvicinarsi, passando da una fila all’altra fino ad arrivare proprio davanti a me. Il film è iniziato da dieci minuti, l’interpretazione di Marcello Mastroianni nel ruolo del tranquillo giornalista portoghese degli anni Trenta è sublime ma assai poco eccitante dal punto di vista erotico. Ciononostante, l’amico comincia a contorcersi in strane manovre manuali, e contemporaneamente volge il suo nasone verso il mio pancione. Non ho esitazioni e gli sferro un bel calcio con le mie scarpe basse a punta. Il tizio emette un urlo straziante da animale ferito, facendo voltare metà dei pochi spettatori, e fugge dalla sala. Il resto del pomeriggio scorre senza incidenti.

Novembre 2019, mia figlia ventiquattrenne si reca al cinema (Lincoln Square, New York) a vedere Joker. Non c’è molta gente, il film è ormai nelle sale da tempo. Dietro di lei c’è un tizio che, eccitato sessualmente dalle sfighe a ripetizione che colpiscono il personaggio interpretato da Joaquin Phoenix, comincia a toccarsi le parti intime. Non disponendo di scarpe a punta, Arianna gli fa un’urlata in tutte le lingue che conosce. Spaventato, il tizio fugge dal cinema e non torna più (trattandosi di un multisala, non è escluso che sia andato a proseguire altrove le sue attività di auto-esplorazione). Terminata la proiezione, Ariannaa va a lamentarsi col responsabile di sala.

“C’era uno che si masturbava nella fila dietro la mia”

“Era nero?”

“No, era bianco”

“Ah, allora ce n’è un altro.”

Ventiquattro anni e seimilacinquecento chilometri dopo, certe cose, di madre in figlia, non cambiano. Grazie a questa disavventura ho imparato che “masturbarsi” in inglese si dice to jerk off. Tanto più interessante se ci ricordiamo che il sostantivo jerk significa cretino, e il verbo to jerk (senza preposizione) significa avanzare a sobbalzi.

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Posted by on sabato, Ottobre 26, 2019 in New York |

Tra Gotham e Topolinia

Quella che gli esperti chiamano share economy avanza in tutti i settori, anche i più imprevedibili. Così, basta installare un’applicazione sul cellulare, e  con Uber ci illudiamo di essere diventati tutti tassisti, o con Airbnb tutti albergatori. Poiché, non solo da noi, a una diminuzione oggettiva delle cifre della criminalità fa da contraltare un’aumentata percezione soggettiva di insicurezza, ecco che la prossima novità (the next big thing, direbbero negli States) sarà la app-vigilante, in cui ci cimenteremo tutti a segnalare crimini grandi e piccoli a cui assistiamo per strada. In Italia non c’è ancora, e me l’ha segnalata Arianna, che vivendo a New York ci anticipa sempre. L’applicazione si chiama Citizen, disponibile su Google Store e su Apple Store, Per ora serve, negli USA, solo New York City, Austin, Baltimora, Detroit, Los Angeles, Philadelphia, Phoenix e San Francisco, ma non è escluso si espanda, prima o poi, anche ad altre città, nazioni o continenti.

Va notato che l’applicazione era nata nel 2016 col nome di Vigilante, e dopo poco più di 48 ore (!) era stata ritirata dagli App Store, a seguito di furiose polemiche. Nella sua prima versione, in effetti, l’applicazione incoraggiava gli utenti non a tenersi lontani, ma a coinvolgersi attivamente nel contrasto all’attività criminosa segnalata, oltretutto con spiacevoli connotazioni razziste (era consentito segnalare la “razza” dei sospetti). In un Paese dal pesante passato di esecuzioni extragiudiziali, linciaggi, vigilantismo, una tale “privatizzazione della sicurezza” non poteva che suscitare allarme.

Così, l’applicazione è rinata dalle sue ceneri all’inizio del 2017, con una filosofia diversa. Scopo di Citizen è avvisare chiunque si trova nelle vicinanze di crimini, incidenti, situazioni pericolose. Chiunque può inviare segnalazioni, via messaggi, o anche video, di quanto sta accadendo “prima che la polizia abbia risposto”.

Arianna, però, ha notato che molto spesso le segnalazioni, più che crimini gravi, riguardano più che altro infrazioni minori, spesso con effetti di umorismo involontario. Ne vien fuori un quadro di New York che, più che alla Gotham City di Batman e Joker, somiglia alla Topolinia di Basettoni e Gamnbadilegno. Grazie a Dio (sollievo per la mamma apprensiva con la figlia lontana), ci sono pochi omicidi, stupri, attentati, rapine a mano armata. Abbondano le segnalazioni di “animali viziosi” (ratti e soprattutto procioni), di piccole rapine o furti con destrezza, di odori strani che si sentono per strada, di minacce con armi improbabili (dal machete al pezzo di cemento), risse nei fast-food, uomini e donne che mostrano le parti intime (exposing themselves). Con tutte le varianti combinatorie possibili (tipo rissa tra uomini nudi armati di procione). La mia preferita è quella che vedete qui, il rapporto di un furto di ciambelline (donuts) avvenuto ad Astoria (Queens), sul set dove si girava una puntata di Law and Order. Un divertente corto circuito tra realtà e fiction.

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Posted by on domenica, Ottobre 6, 2019 in New York |

Accessori da bagno

Tutti i nostri connazionali che si recano all’estero sanno quanto è difficile trovare, in case o alberghi, un bidet. Ormai è un luogo comune e mi chiedo cosa aspettino i sovranisti nostrani a farne un simbolo di identità nazionale italica (avrebbe più senso, che so, del crocifisso). Ma, negli Stati Uniti, c’è un altro accessorio da bagno che, se devo dare retta all’esperienza vissuta di mia figlia, è pressoché impossibile da trovare: il banale accappatoio di cotone, di spugna o a nido d’ape.

Qualche giorno fa, infatti, Arianna si è accorta – anche perché, con scarsa educazione, gliel’ha fatto notare una delle sue compagne d’appartamento – che il suo accappatoio di spugna, che si era portata dall’Italia oltre quattro anni fa, cominciava a perdere i colpi e a farsi vetusto. Per comprarne uno nuovo, si è recata prima ai grandi magazzini (Manhattan Mall, Macy’s, K-Mart) e poi anche in un negozio specializzato (Bath, Bed & Beyond) senza trovare niente che andasse bene. A quanto pare, a New York se dici accappatoio te ne propongono uno di raso, poco pratico e dal costo di svariate centinaia di dollari. Si vede anche nei film e nelle serie. Chi indossa l’accappatoio di rosa di solito è un raffinato seduttore con la sigaretta a bocchino, o una bellona mangiauomini (se una coppia fa colazione in accappatoio, è il segno che la notte prima hanno avuto intimità sessuale). L’uomo comune si limita a un asciugamano bianco (una donna usa spesso una tovaglia, sempre bianca, per coprirsi il seno). Poi rimane il problema di come facciano ad asciugarsi la testa, perché non risulta l’esistenza di cappucci.

Insomma, pare che in una metropoli globale come New York sia più semplice trovare accessori per il sesso anale, o per il Cosplay, che per fare la doccia. Per fortuna ho in casa un accappatoio mai utilizzato e ho intenzione di passarlo ad Arianna la prossima volta che viene in Italia. Sperando che l’inusitato manufatto non faccia scalpore tra gli addetti ai controlli doganali.

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Posted by on domenica, Maggio 19, 2019 in New York |

La città dell’amore fraterno

Se volete vedere qualcosa di relativamente antico, non troppo lontano da New York, conviene andare a Philadelphia (in greco amore fraterno), fondata dal quacchero William Penn nel 1682. Ci si arriva in treno (dalla Penn Station, ma costa molto) o in autobus. A Port Authority (fermata delle linee A-C-E collegata da un sottopasso pedonale a Times Square) c’è il terminal dei bus a lunga percorrenza da cui partono i mitici Greyhound. Era domenica e ci siamo decisi all’ultimo momento, così i biglietti erano esauriti. Fortunatamente, nella sala accanto vendevano i biglietti della Peter Pan Bus, e ce la siamo cavata con 50 dollari a testa per l’andata e ritorno. A seconda delle condizioni del traffico, ci vogliono tra 100 e 120 minuti per arrivare. Il viaggio è piuttosto comodo, l’autostrada attraversa il New Jersey e il Delaware prima di arrivare in Pennsylvania, i bus sono dotati di bagno, WiFi, caricatore per il cellulare. La stazione di arrivo è vicino alla Chinatown locale, a una ventina di minuti a piedi dal centro storico.

Quasi tutti gli edifici storici sono legati alla Rivoluzione Americana e alla susseguente guerra contro gli inglesi. Da molto tempo sognavo di visitare Philadelphia. Sono rimasta molto delusa quando ho scoperto che, per entrare nella Independence Hall,  l’edificio dove fu firmata la Dichiarazione d’Indipendenza, occorreva prenotarsi in anticipo: non fate il mio stesso errore! In compenso, ho potuto rendere omaggio alla Liberty Bell, la leggendaria campana sbrecciata che – nonostante quanto afferma la leggenda – NON suonò a distesa il 4 luglio 1776. Si tratta di un tipico caso di “invenzione della tradizione”: la campana in realtà fu commissionata dalle autorità cittadine nel 1753, come mezzo di comunicazione a distanza per una città che si stava espandendo, quando ancora di indipendenza nessuno parlava, tant’è vero che fu fabbricata in Inghilterra. Riporta la citazione biblica Proclaim liberty throughout all the land unto all the inhabitants thereof (Proclamate la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti, Levitico 25:10). La citazione fu sfruttata per trasformare, a partire dal 1830, la campana in un simbolo dell’abolizionismo e della lotta alla schiavitù. La breccia comparve nella campana a metà dell’Ottocento, e non si riuscì mai a ripararla. Per vedere la campana – è gratis – occorre fare la fila e sottoporsi a controlli “stile aeroporto”.

Ci siamo poi fatti un’overdose di storia americana al Museum of the American Revolution (aperto appena due anni fa), molto ben allestito e presentato, che culmina in una solenne (forse troppo) sala dedicata a un breve documentario sulla Tenda di Washington, assorta a simbolo di unità nazionale (tenda nel senso di campeggio, non di arredamento). Alla fine, una gradevole passeggiata attraverso l’Independence National Park, dove si possono ammirare altri edifici settecenteschi, ci riporta indietro. Ma per chi vuole ci sono anche siti storici dedicati ad altri cittadini illustri come Benjamin Franklin o Betsy Ross (alla quale si attribuisce la creazione della bandiera a stelle e strisce).

Philadelphia ha un milione e mezzo di abitanti, praticamente come Milano: una gradevole via di mezza tra la frenesia di Manhattan e la sonnolenza di Jersey City o Hoboken.

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Posted by on sabato, Maggio 11, 2019 in New York |

Haunted Academy

Al 120 di Madison Avenue, nel centro di Manhattan, sta l’American Academy of Dramatic Arts, la prestigiosa scuola di recitazione dove si è diplomata Arianna. L’edificio è uno dei più vecchi della zona, costruito nel 1908: osptava inizialmente il Colony Club, il primo club newyorkese per sole donne (naturalmente bianche e ricche). L’Academy lo occupa dal 1963. A ogni piano, dai sotterranei all’ultimo passando per l’ingresso, ci sono grandi foto dei vari anni (dal 1884, anno della fondazione).

Molte leggende circolano su strane presenze nell’edificio. La più inquietante riguarda due giovani attrici: una era la protagonista di uno spettacolo, l’altra la sua sostituta. La protagonista si ammalò la sera della prima, ma la voglia di assistere allo spettacolo era stata tale che si era alzata dal letto e aveva sfidato le intemperie. Si sa che i newyorkesi sono ostinati e non lasciano che una banale tempesta di neve cambi i loro programmi: in Madison Square, non lontano dall’Academy, c’è il monumento a Roscoe Conkling, senatore repubblicano sotto la presidenza Grant, che l’11 marzo 1888 si ostinò a voler andare in ufficio (a piedi, la metropolitana non c’era ancora) e mal gliene incolse. Come Conkling, anche la nostra studentessa morì di polmonite, e la sua amica e sostituta subì la stessa sorte pochi giorni dopo. Dice la leggenda che molti studenti, nel corso degli anni, le hanno viste assistere alle prove nell’aula MG, che sta al pianterreno. Anche in un’altra aula, la MM, più di uno sostiene di aver visto un uomo entrare, assistere alle prove e scomparire nel nulla. A un ex preside è capitato, a tarda sera, di vedere uscire dall’ascensore un uomo che fluttuava nell’aria a mezzobusto. L’apparizione l’ha squadrato e gli ha detto, con la massima calma Non preoccuparti, non sono venuto per te (il protagonista di questa storia è ancora vivo, ultranovantenne). A mia figlia – come ad altri – è capitato, nell’edificio adiacente, che fa da pensionato, di sentire delle voci dall’ascensore in arrivo, poi l’ascensore si fermava di colpo e non c’era dentro nessuno.

Purtroppo l’Academy, con tutto il suo fascino (ha anche un bel rooftop), non è visitabile, a meno che non siate alunni, ex-alunni o accompagnati da un ex-alunno. Quindi, se vi capitasse di incontrare per strada Robert Redford o Danny De Vito, dopo avergli chiesto l’autografo, chiedete loro anche di farvi ammettere nel Sancta Sanctorum dell’arte drammatica.

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